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Il tè nella letteratura

Il tè nella letteratura – le origini

Pensate al tè e immaginate le porcellane di Dresda, i pasticcini imburrati e le chiacchiere da salotto di un’aristocrazia più snob che reale? Pure io. Le origini però sono, come quasi sempre, altrove.

L’Oriente, lontano e misterioso Oriente, fumerie di oppio, geishe lussuriose, samurai dediti alla morte persino auto inflitta e lo zen, servito insieme al tè. Anche il tè nella letteratura inizia da qui. Nel 780, il venerabile Lu Yu scriveva Cha Ching – una guida per servire il tè –, eppure il tè orientale nulla ha a che vedere con quello occidentale.

Avete mai visto una piantagione di tè a terrazze? Il verde asfissiante, l’infinita ripetizione di linee sinuose che delimitano i gradini ricoperti di tè, la sensazione che il mondo inizi e termini lì, l’assenza di orizzonti che non siano altre montagne ricoperte di tè… Forse è da questo che deriva la meditazione, l’elevazione dell’io oppure dello spirito – appurato che ci sia una differenza –, o la “riconquista del gioiello della vita”. Tutte cose a noi lontanissime. Infatti la citazione non è mia, ma di Okakura Kakuzō, che, nel suo libro, The book of tea, scritto in inglese nel 1906, continua persino meglio:

“Beviamo, nel frattempo, un sorso di tè. Lo splendore del pomeriggio illumina i bambù, le sorgenti gorgogliano lievemente, e nella nostra teiera risuona il mormorio dei pini. Abbandoniamoci al sogno dell’effimero, lasciandoci trasportare dalla meravigliosa insensatezza delle cose.”

Se nella vostra teiera risuona o no il mormorio dei pini, non lo so. Ma, la prossima volta sarebbe bello ascoltarlo, mentre “Oriente e Occidente, come due draghi scagliati in un mare agitato, lottano invano per riconquistare il gioiello della vita”.

Il tè nella letteratura – l’epoca vittoriana e il romanticismo

Ebbene, il rigore mentale, l’abdicazione dell’io e la visione zen del mondo non sono sopravvissuti all’attraversata oceanica, attraversata conclusasi banalmente con un poco interessante scarico merci sulle luride banchine dei porti d’Inghilterra. L’avvento delle colonie ha portato non solo altra gloria a Sua Maestà la Regina, ma anche le foglie di tè. E, da buoni occidentali che siamo, abbiamo immediatamente provveduto a trasformare il rito del tè nel rito del… perdere tempo. Come dite? Che ne è del suo grazioso fascino romantico? Cosa ne ho fatto del suo aristocratico seppur lezioso girare intorno alle parole? Dov’è andata a finire la raffinata seduzione che traspare appena nella traslucena di una tazza di bone china, o nelle porcellane di Meissen o di Limoge (qui una breve storia della porcellana)?! Ci arriviamo.

“Dalle cinque alle otto corre talvolta una piccola eternità che, nel nostro caso, non poteva essere che un’eternità di piacere.”

Queste le parole di Henry James in Ritratto di Signora, questo il mio incipit per addentrarmi nella mia poco ortodossa teoria dell’importanza del tè nella letteratura inglese. D’accordo, Henry James era americano e siamo agli sgoccioli dell‘800, ma questo rafforza ancor di più il mio pensiero sull’anglosassone rito del tè.

Il tè nella letteratura inglese – la vacuità perfetta

Dalle cinque alle otto… Ripeto il lasso di tempo indicato da James come eternità di piacere solamente per imprimere meglio nella mente (mia per prima) il preciso arco temporale in cui si svolgeva il rito del tè. Del 5 o’clock tea ne abbiamo sentito tutti parlare, che inizi alle cinque lo sappiamo, ma che duri più o meno tre ore ve lo aspettavate? Neanch’io. Ovviamente capitano anche tè più brevi, ma il momento (chiamalo momento) del tè pomeridiano si può prolungare fino all’ora di cena, sostituendosi direttamente a essa.

Abitudine nata nei palazzi reali frequentati dall’alta aristocrazia, la moda di servire il tè pomeridiano si propaga velocemente fra tutte le classi sociali inglesi. Donne strizzate nell’abito migliore, tintinnio di porcellane, uomini con bastone e cilindro, chiacchiere a tempo perso, teiere bollenti, tempo perso in chiacchiere, piccoli tramezzini, sguardi galanti, dolcetti imburrati, parole sussurrate, confetture, educazione, latte, attesa.

Jane Austen fa prendere il tè ai suoi personaggi in Orgoglio e Pregiudizio, Ragione e Sentimento, Emma, e cos’altro può fare, d’altronde? Le mamme devono tastare il terreno per trovare il miglior partito alle figlie, le figlie devono sorridere e nascondere sguardi lunghi, i rivali in amore devono poter rivaleggiare con eleganza… Dove farlo, dunque, se non dietro a una tazza da tè? Kim Wilson né ha fatto addirittura un libro: Un tè con Jane Austen.

Charles Dickens è costretto a far incontrare Pip e la sua amata Estella di Grandi Speranze in un ristorante dove servono il tè e non poteva essere altrimenti: lei è talmente snob che non lo avrebbe incontrato altrove e lui, dopotutto, ha grandi speranze.

Sorseggiano il tè nei libri delle sorelle Brontë e in quelli di Oscar Wilde – divertentissimi i quiproquo a suon di zollette di zucchero ne Limportanza di chiamarsi Ernest –, organizza sfarzosi tè uno dietro l’altro Mrs. Dalloway nell’omonimo romanzo di Virgina Woolf – e cos’altro potrebbe mai fare la viziata protagonista di questa storia che scava nelle profondità del suo essere, senza però scoprire di possedere un essere vuoto, annoiato e che ha rinunciato all’amore vero?

Una società con tanto tempo libero e il terrore di dover affrontare i propri sentimenti, una società di apparenza e noia dove quelli che devono costruirsi una vita camminano sulle uova per timore che la vita lo venga a sapere e quelli che invece una vita ce l’hanno già, ma capiscono che non è quella che volevano, sono troppo codardi per constatarlo con loro stessi. Entrambe le categorie affogano nel tè la loro disperazione.

Nel tè, certo. Non possono farlo mica nell’assenzio, come i dissoluti francesi (qui una bellissima panoramica sull’argomento) o nella vodka, come i nostalagici russi. Loro hanno bisogno di una bevanda accomodante, senza carattere e slanci improvvisi. Il tè è una bevanda così anonima, scialba quanto i loro anemici caratteri: semplicemente acqua bollita versata su foglie secche, non per niente Monsieur Hercule Poirot, il famoso detective nato dalla penna di Agatha Christie, aborriva ogni qualvolta glielo propinavano: il tè non era una bevanda degna di questo nome, il cioccolato caldo lo era, oppure il sirop, o qualche liquorosa bevanda alcolica. Infatti Poirot è belga.

Tornando alle origini, il tè è una bevanda semplicemente pura, specchiandosi nella sua raffinata trasparenza si può vedere l’anima, ci si può interrogare sul superfluo e meditare sull’universo. Non sia mai. La trasparenza viene subito annullata da un goccio di latte – raccapricciante abitudine nata a quanto pare per evitare di macchiare la lucentezza della porcellana (altro lampante esempio di forma che viene prima di qualsiasi contenuto) – che trasforma completamente la natura stessa del tè. Nato da un miracolo geologico e uno vegetale, liquido limpidissimo e dal raffinato sapore di leggerezza, il tè viene abominevolmente contaminato da un grasso animale che muta completamente la sua anima, trasformandolo in un miscuglio di dubbio colore, consistenza e sapore. Il peggio è che tutto avviene come se niente fosse, la nuova sostanza non ha anche un nuovo nome, non ha una nuova vita, continua a essere semplicemente tè, quando tutto è, tranne che quello. Il latte nel caffè diventa caffellatte, se il latte è poco, caffè macchiato, se è poco il caffè è un latte macchiato, tutto ha un nome diverso, perché diversa è la bevanda, tutto tranne che il tè.

Non basta il latte nel tè, affoghiamolo pure di panna, dolcetti al burro, tartine al salmone, scones variegati, tramezzini all’uovo, purifichiamoci con il tè dimenticando i problemi su un vassoio di pasticcini, anzi, no: non affrontiamoli proprio, i problemi, si sta bene seduti su sedie foderate di seta a servire elegantemente tè colorato di latte e sguardi colorati di forse, disquisendo con grazia del più e del meno. Generalmente del meno.

Il tè nella letteratura – oltre il romanticismo e oltre la Manica

Anche se, appena si nomina il tè, il primo pensiero rimanda alla cara, vecchia Inghilterra e ai suoi romantici romanzi, sarebbe riduttivo confinare il tè al genere romantico. Nei polizieschi di Agatha Christie si beve continuamente il tè, vuoi per riprendersi dall’aver trovato un cadavere, vuoi per elencare gli indizi, ma Miss Marple in fondo in fondo un po’ romantica lo è. C’è molto meno tè in Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle: l’intrepido detective di Baker Street predilige bistecche e oppio a cena, roba da uomini, altro che romanticismo!

Uno dei miei tè letterari preferito è quello della divertentissima gita organizzata da Jerome K. Jerome in Tre uomini in barca. Molto meno cerimonioso rispetto a tutti i suoi simili – date le ovvie difficoltà del servirlo sulla barca – il tè di Jerome è come il suo libro: un capolavoro di humor inglese servito insieme a piccole perle di saggezza. Ed eccovi un infallibile sistema per far bollire l’acqua velocemente:

“Mettemmo l’acqua per il tè a bollire sulla prua e ce ne andammo a poppa con la decisione di non occuparci più del bricco e pensare alle altre cose necessarie.
Questo è l’unico sistema perché un bollitore serva al suo scopo sul fiume. Se si accorge che state aspettando con impazienza l’acqua bollente, non comincerà mai più a cantare. Il meglio da fare è di andarsene e cominciare a mangiare come se non voleste prendere il tè. Meglio non voltarsi nemmeno a guardarlo; vedrete che allora comincia subito a schizzar acqua bollente, matta per la voglia di diventare tè.
Quando poi vi capita di avere molta fretta potete fare anche meglio: vi mettete a parlare ad alta voce l’uno con l’altro dicendo che non volete il tè, che non lo prenderete. Vi avvicinate al bricco, in modo che possa sentire, e gridate: 

– Io il tè non lo prendo; e tu, George? – al che George urla: – No, il tè non mi piace, berremo invece una limonata… il tè è indigeribile.

State sicuri che il bricco mette a buttar fuori tanta acqua bollente che spegne il fornello.
Adottammo questo trucco innocuo e il risultato fu che, prima che tutto il resto fosse pronto, il tè già aspettava.”

Celebre invece il tè servito in Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, anche se, ai tempi di #metoo, l’interrogativo su di lui si pone più che mai e il fascino dell’autore cala in modo direttamente proporzionale alla veridicità dei sospetti. Concentrandoci solamente sull’opera (non stiamo forse sfuggendo anche noi alla realtà affogando di panna la verità?), interessantissima la chiave interpretativa di questo estratto:

“C’era un tavolo apparecchiato sotto un albero davanti alla casa, e la Lepre Marzolina e il Cappellaio vi prendevano il tè: tra loro c’era un Ghiro profondamente addormentato, e se ne servivano come di un cuscino appoggiandovi i gomiti e parlando sopra il suo capo. “Molto scomodo per il Ghiro”, pensò Alice; però, visto che tanto dorme, non gli dà fastidio”.
Il tavolo era grande, ma i tre stavano pigiati in un angolo. “Non c’è posto! Non c’è posto!” si misero a gridare quando videro Alice farsi avanti. “Ce n’è moltissimo invece!” disse Alice indignata, e si sedette in una grande poltrona a capotavola.
“Prendi un po’ di vino”, disse la Lepre Marzolina in tono incoraggiante.
Alice si guardò intorno dappertutto, ma non vide altro che tè.”

L’imperialismo inglese impersonato dalla Lepre Marzolina e dal Cappellaio, i popoli sottomessi nella figura del Ghiro che dorme, le conquiste colonialiste – il tè, appunto –: la società cresciuta dunque sulle debolezze dei popoli addormentati. E poi l’egoistica sete di potere, la paura di dover dividere i frutti: “non c’è posto, non c’è posto!”, una politica internazionale menzognera e ingannevole: “Prendi un po’ di vino”, questa la denuncia di Carroll camuffata dal quadro giocoso e quasi bucolico.

Molto più secco e decisamente più diretto il quesito di Arthur Dent nella Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams:

“Arthur sbatté le palpebre fissando i monitor accesi e sentì che mancava qualcosa di importante. Improvvisamente si rese conto di quello che mancava.
“C’è un tè su questa astronave?” chiese.”

Inverosimile infatti che una macchinetta costruita per poter produrre qualsiasi cosa non sappia fare il tè.

Anche i francesi bevono tè nei libri, lo fa Proust in Un amore di Swann (e qui lo trovate abbinato alle sue madeleines) e lo fa Verlaine, il genere cambia ancora, sempre nel romanticismo, ma con la sofisticatezza francese:

“L’ora del tè fumante e dei libri chiusi, la dolcezza di sentire la fine della sera, la stanchezza incantevole e l’adorata attesa dell’ombra nuziale e della dolce notte.”

Ne beve sensualmente D’Annunzio nel Il piacere, offrendo al lettore una panoramica sul ruolo femminile e la posizione di predatore dell’uomo – panoramica più o meno piacevole, dipende dalla prospettiva interpretativa, immagino.

Bevono tè nero con pane nero i russi, altro genere ancora: il tè serve per fortificare lo spirito e temprare l’anima, ne bevono I Demoni di Dostoevskij, così come tutti gli altri personaggi dei grandi romanzi russi, è un tè forte però, servito da un samovar grosso come la Grande Madre Russia, fornisce quell’energia rapidamente immalinconita da un bicchiere di vodka e dall’animo russo. E non può essere altrimenti.

“L’estasi è una tazza di tè e un dolce di zucchero in bocca.”

Alexander Puskin

Per concludere

Non esiste altra bevanda che più si associa alla letteratura come il tè e non esiste altra bevanda che meglio si associa alla lettura. Tirate dunque le vostre conclusioni, spirituali, romantiche o amene che siano. Importante è riflettere. Con una tazza di tè.

Annabelle Lee