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Il sogno che vince

Sdraiata su un divano anni settanta, dalle esili zampe di acciaio e dalla copertura di velluto rosso, apro gli occhi al silenzio innaturale.

Tutto tace, anche l’ottocentesco orologio da muro, che fino a poco fa, o a un secolo fa?, probabilmente ticchettava i secondi con tenacia. Mi chiedo se il suo rumore fosse determinato dal meccanismo o dalle teste caprine finemente cesellate. Finemente. La finezza non può essere solo la risultanza di un expertise di un antiquario. Io trovo la cesellatura delle capre difficile, ma brutta.

Lo squadro con più attenzione: sono le dodici. O mezzanotte? Ma è fermo: il silenzio non mi inganna. Allora osservo quello che ho al polso, un piccolo gioiello tecnologico: le due lancette puntano decisamente a nord. Mezzogiorno o mezzanotte anche per lui.

Mi guardo intorno. C’è luce, ma non artificiale. Tuttavia non ci sono finestre. Nemmeno porte.

Il cuore accelera nonostante la parvenza di calma della mia mente. È proprio vero: il cuore racconta molto prima della ragione la verità su noi stessi. A noi stessi, ovvio. Agli altri la ragione ragionata si prende tutto il tempo di abbigliarla, di truccarla o di mandarla in giro come mamma l’ha fatta. La verità…

La verità è che non so come io sia finita qui. Non riconosco l’ambiente. Scruto il soffitto, forse mi è sfuggito un lucernario. Niente.

Mi alzo dal giaciglio, rendendomi conto solo ora che le molle hanno ceduto. Se riuscissi a sbirciarmi la schiena probabilmente la vedrei marchiata da quei riccioli metallici scomposti. Ma non ci sono specchi nella stanza. E mi chiedo se sbirciarsi la schiena sia una priorità in questo momento.

Meglio dare la precedenza al contenuto del mio ampio loculo.

Le pareti sono bianche, di un bianco vero. Di quelli che non diresti mai “sporco”, “grigio”, “crema”, “avorio”. Proprio un bianco bianco.

Il divano è rosso.

L’orologio è marrone con intarsi — e cesellature — dorati.

Ah, e c’è un foglio, bianco, attaccato al muro. Una linea nera lo altera.

Mi avvicino: la linea nera è una serie di caratteri. Una scritta, quindi. Forse una frase. Mi avvicino ancora di più, fino al limite in cui gli occhi smettono di vedere separatamente.

Leggo: il Tempo è morto. Fine dell’orizzontalità.

Cavolo… e quindi? Io cammino per la stanza, e uso l’orizzontalità. I miei pensieri si dipanano nel tempo, in una sorta di linea continua, quindi sono orizzontali. O no?

Immagino le lettere che compongono le parole, le parole che compongono le frasi, affastellarsi una sull’altra, senza interruzione, come nei sogni, in cui una storia sembra svolgersi per ore e magari sono passati pochi secondi da quando abbiamo chiuso gli occhi.

E i passi: anch’essi diventano gradini più che spazio attraversato. Gradini che si riversano su sé stessi.

La torre immaginaria si fa altissima, infinita: io penso e lei cresce. Io cammino e lei si innalza. Il pensiero dei pensieri che si accavallano è a sua volta gradino.

E su, sempre più su.

Restando qui, dentro una stanza bianca. Con un divano rosso e un orologio marrone, cesellato di capre. Le quali, osservandole (e continuando così la scalata verso il punto infinito sopra la mia testa), sembrano sogghignare.

Non era la capra anche simbolo del diavolo? Ma perché il diavolo sogghigna se sto scalando il cielo?

E i pensieri si arrampicano, così i miei passi, così il mio sguardo. Mi chiedo cosa vedo in questa colonna di lettere, passi, idee, scelte, coraggio, codardia… e non riesco a far lavorare l’immaginazione. Tutto ciò che suppongo è una corda di cemento. Non per impiccarmi, no. Per arrampicarmi, magari.

Perché la immagini di cemento tuttavia è un mistero: dovrei essere un ragno per salire su una parete liscia.

Il foglio cade dal muro su cui era attaccato, scoprendo un’apertura. Corro verso il foro — l’apertura è tonda —, sbircio e vedo.

Vedo torri altissime una identica all’altra, tutte somiglianti a volute di niente. Veloci crescono e altrettanto velocemente sfumano nella parte alta. Si alzano, si alzano, ma restano lì, a qualche centimetro dal cielo senza riuscire a toccarlo. Potrebbero, ma non lo fanno.

Un pensiero mi aggredisce, e sembra orizzontale nonostante la mancanza del Tempo: cosa ho pensato sino a oggi? Fumo. Cosa ho costruito sino a oggi? Fumo.

No surprises dei RadioHead si insinua nella mia testa annebbiata, se dal sonno o dall’inutilità della mia esistenza non so.

Mi sveglio nel mio letto di lattice e cotone, con la sveglia del cellulare che mi ricorda che sta per ricominciare la mia finta ascesa al cielo: una vita di fumose intenzioni, fumosi pensieri, fumosi sentimenti.

Sul comodino, la capretta di ceramica che mi ha donato un amico per prendermi in giro sulle mie preferenze alimentari mi sorride sorniona, rammentandomi che per fare quel cellulare son morte delle persone. E che ho poco da vantarmi, limitandomi a non mangiare capre…

Di fronte, un armadio pieno di cinesi mal pagati, di negozianti stressati, di coloranti vietati mi copre di insulti.

Di lato, la finestra sul cortile non rimanda grida allegre di bambini, ma un rombare continuo di auto.

Mi rimetto a dormire? O finalmente, davvero finalmente mi sveglio?

Loredana Conti