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Il paradiso delle signore – recensione

Finalmente un happy-ending, posso dirlo? No, perché dai classici ti aspetti le peggio cose (scritte però al meglio): tutti che muoiono, o si suicidando, o vanno in prigione o, nella migliore delle ipotesi, si riscattano dopo una vita di sofferenze, appena in tempo per rendersi conto che possono morire felici. Che è già qualcosa, ne convengo.

In questo caso, invece no. Prima di morire felici, i personaggi hanno modo anche di vivere felici. O almeno è ciò che l’autore ci fa sperare.

La trama di Il paradiso delle signore

Dal titolo originale Au bonheur des dames e tradotto generalmente con Al paradiso delle signore (ma nella mia edizione Il paradiso delle signore), il romanzo di Émile Zola è un momento cristallizzato nel tempo. L’autore racconta con vivida capacità narrativa non una storia, ma un susseguissi della vita in uno breve arco temporale di un specifico e confinato luogo. Un luogo che si mostra al lettore così come una goccia di acqua si mostra sotto la lente di un microscopio: in un colpo d’occhio, tutta la grandiosità e le miserie della vita si schiudono dinanzi al lettore contemporaneamente, dandogli la possibilità di percepire l’insieme e, allo stesso tempo, le singole, ma interconnesse, esistenze.

La storia si svolge a Parigi, più precisamente su i due lati di una strada. Strada che subisce i cambiamenti dell’epoca, il progresso, l’avanzare dei tempi, e con essa, i suoi abitanti. È l’epoca della grande riqualificazione urbanistica della capitale francese, e ciò fa da sfondo agli eventi che si svolgono nella nostra storia: l’avvento dei grandi magazzini a discapito delle botteghe artigiane e dei piccoli negozianti di quartiere. Un po’ come la storia dei centri commerciali nei giorni nostri.

Una ragazza, venuta da un paesello insieme ai suoi due fratelli per trovare fortuna nella capitale, chiede alloggio presso certi suoi parenti commercianti che le avevano promesso aiuto. Ma i commercianti non se la passano per niente bene: il loro negozio, insieme a tutti quelli della via, stanno subendo l’attacco di un mostro: un grande magazzino aperto dall’altra parte della strada.

Moderno, dalle vetrine scintillanti e pullulante di vita, il grande magazzino vende un po’ di tutto. Beh, tranne la roba fatta in Cina – a meno che non fosse seta:

“Ma, appena imboccata la via, Denise fu attratta da un’altra vetrina dove erano esposte le confezioni per signora. Da Cornaille, a Valognes, si occupava soprattutto dei capi confezionati. Eppure non aveva mai visto niente del genere, e restava inchiodata sul marciapiede per l’ammirazione. In fondo, una grande sciarpa in pizzo di Bruges, dal prezzo considerevole, si stendeva simile a un velo d’altare, con due ali spiegate di un biancore dorato; dei volants in punto d’Alençon erano disposti a festoni; poi, gettati a piene mani, cadevano come neve merletti di ogni tipo, malines e valenciennes, applicazioni di Bruxelles e merletti di Venezia. A destra e a sinistra le pezze di tessuto formavano scure colonne che facevano sembrare più lontano quello sfondo di tabernacolo. E in quella cappella dedicata al culto delle grazie femminili si trovavano appunto le confezioni per signora: al centro, un esclusivo mantello di velluto con bordi di volpe argentata; da una parte, una rotonda di seta foderata di petit-gris; dall’altra, un cappotto di panno decorato con piume di gallo; infine, cappe da sera bianche, in cashmere o matelassé, guarnite di cigno o di ciniglia.”

Pur legata ai suoi parenti che disprezzano e combattono la novità, la ragazza non riesce a fare a meno di essere attratta dal grande magazzino come in un incantesimo. Finisce per prendere servizio come commessa proprio lì: in quel tempio di perdizione dei tempi che furono. Da una parte, il negozio di suo zio: cupo, antico e che odora di umido ma dove il lavoratore è considerato uno di famiglia; dall’altra, il grande magazzino con le sue esposizioni lussuose e il fascino della modernità, dove i lavoratori sgobbano incessantemente per pochi spiccioli, senza tutele e certezza alcuna.

Assistiamo così all’avanzare del mostro, la piovra che avvinghia una alla volta le botteghe del vicinato, stritolandole nella sua morsa mortale nonostante la loro eroica lotta. Come andrà a finire? Lo immaginate da voi.

In parallelo abbiamo la storia d’amore o, meglio: una storia sull’amore. L’amore che non scende a compromessi, che non chiede niente, che non si aspetta niente e si accontenta di essere “soltanto” amore. Che sembra la Prima lettera ai Corinzi.

I temi di Il paradiso delle signore

  • Il prezzo del progresso

Difficilmente il progresso è sinonimo di umanità: il suo avanzare è inesorabile e non può fermare la sua corsa per ogni nostalgico che si oppone al nuovo. Siamo sicuri però che annichilirlo senza pietà sia l’unica via?

  • Il consumismo e i suoi effetti alienanti

Il paradiso delle signore è un vero paradiso. Del consumismo (ne parliamo qui), infatti:

“L’affollamento, ai pizzi, cresceva di minuto in minuto. La signora de Boves, dopo aver passeggiato a lungo con la figlia, consumando le vetrine con gli occhi, presa dal bisogno sensuale di affondare le mani nei tessuti, s’era decisa di farsi mostrare dei ricami d’Alençon dal commesso Deloche. In un primo tempo aveva mostrato le imitazioni; ma quella aveva voluto vedere del vero Alençon, e non si accontentava di piccole guarnizioni a trecento franchi al metro, esigeva le balze alte, da mille franchi, i fazzoletti e i ventagli da sette e ottocento franchi.”

  • Il moralismo – o la moralità – dell’essere coerente con sé stessi

Non si possono contrastare l’avanzare dei tempi e i cambiamenti: la storia insegna che tutti coloro che hanno provato a farlo hanno fallito. Persino in natura, la selezione naturale non premia – come ci si potrebbe aspettare – quelli più forti, ma quelli che hanno saputo adattarsi. Adattarsi, già, ma senza svendersi; adattarsi tenendo conto della propria natura e dei propri valori: un equilibrio non sempre facile da trovare e mantenere, specie se i sentimenti sono coinvolti:

“Denise, invece, non pensava affatto in questo modo. Quel che l’aveva decisa a partire, erano proprio i giudizi che venivano espressi sulla sua condotta, con sua grande sorpresa. (…) L’idea del matrimonio la irritava, era decisa a dire ancora no, sempre no, nel caso lui avesse spinto la sua follia sin lì. Solo lei doveva soffrire. La necessità della separazione la portava alle lacrime; ma si ripeteva, con grande coraggio, che doveva farlo, e che non avrebbe più avuto né riposo né gioia se si fosse comportata diversamente.”

  • La lotta per la sopravvivenza

Il capitalismo porta con sé molte cose, e una di queste si evince benissimo dal libro di Zola: la disperazione del sopravvivere dovendo stare alle nuove regole. La dignità umana viene calpestata, distrutta, i lavoratori sono semplicemente degli ingranaggi che fanno funzionare la grande macchina del progresso: uno vale l’altro e nessuno è insostituibile. Meno male che si tratta del XIX secolo: il mondo era davvero arretrato per quanto riguarda i diritti dei lavoratori, per fortuna oggi le cose sono molto cambiate. O no?

Lo stile di Il paradiso delle signore

La penna di Zola è leggera, avvolgente e sensuale in questo romanzo. Atmosfere, ambientazioni e personaggi diventano reali man mano che il lettore avanza nella lettura e la storia sembra svolgersi su un palcoscenico. Le descrizioni minuziose di merci, stoffe e colori sono colme di una bellezza quasi tangibile, ma si potrebbe arguire che ciò sia facile, considerata la loro natura, ma Zola è altrettanto bravo a presentarci la disperazione, la delusione, la solitudine e la tristezza con altrettanta leggiadria. Le vittime non sono mai vittimiste e il dolore conserva tutta la sua dignità.

Conclusioni

Nonostante tutto, tenersi saldi ai propri principi. Sempre che se ne abbiano.

 

Annabelle Lee