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Recensione La versione di Barney

La versione di Barney di Mordecai Richler

Ho riletto La versione di Barney, scritto dal canadese Mordecai Richler e pubblicato nel 1997. Lo ricordavo come un libro dissacrante, divertente e bello. E lo è. Sia la dissacrazione, che l’umorismo e la bellezza derivano dal personaggio principale, Barney Panofsky, figlio di ebrei trapiantati in Canada, che, per riassumere con le sue proprie parole, si potrebbe presentare così:

“Posso querelare per diffamazione un tizio che mi accusa nero su bianco di avere picchiato mia moglie, di essere un plagiario, uno spacciatore, un alcolizzato con tendenze violente, e con tutta probabilità anche un assassino?”

“Non saprei. Mi sembra che il tizio sia piuttosto bene informato”.

In sua difesa devo precisare che non ha mai picchiato la moglie. Nessuna delle tre. Col fiuto degli affari – dunque, ricchissimo –, un problema con l’alcol e un altro con il mondo intero, Barney è proprietario di “Totally Unnecessary Productions”, una casa di produzione che sforna serie e programmi tv completamente non necessari ma di successo:

“Mi trovavo a Hollywood per un festival televisivo, uno di quelli in cui scelgono il regista di spot “più creativo”, e invece di sbatterlo sulla sedia elettrica gli danno un premio. Io non ci ero andato in cerca di premi, ma di qualcuno interessato alle mie porcherie.”

Nota: mentre procedo a scrivere questo articolo mi rendo conto che nulla potrebbe descrivere l’umorismo brutale e l’impeccabile ritmo della dissacrazione di questo romanzo, nulla eccetto il romanzo stesso, quindi inserirò diverse citazioni, giusto per farvi venire voglia di leggerlo.

La trama di La versione di Barney

La storia, raccontata in prima persona da Barney Panofsky oramai quasi settantenne e con un principio di Alzeihmer:

“Mike mi ha ripetuto per l’ennesima volta che avrei il pianoterra tutto per me. Dà sul giardino, ingresso indipendente. E per i bambini, che sono pazzi di Venerdì 13, sarebbe fantastico passare un po’ di tempo col nonno.
Peccato che io detesti essere nonno. Lo trovo indecente.
Dentro di me continuo ad avere venticinque anni, massimo trentatré, to’. Certo, non sessantasette, con quel che ne segue – la puzza di stantio e di sogni infranti, l’alito cattivo, le gambe che avrebbero un disperato bisogno di una bella lubrificata. E ora che mi è toccato farmi mettere un’anca in vera plastica, non sono neppure più biodegradabile. Gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura.”

ripercorre la sua interessantissima e poco ortodossa vita. Il filo del racconto fa continui salti temporali e si districa fra una miriade di personaggi, citazioni, parole yiddish e francesi, senza mai perdere coerenza (o privarsi del bicchiere di Macallan e della sigaretta Montecristo), in un intreccio che si chiuderà alla perfezione.

Nato a Montreal appena prima della Seconda Guerra Mondiale – una Montreal in cui i francofoni odiano gli anglofoni e viceversa, anglofoni e francofoni odiano i neri e tutti odiano gli ebrei –, figlio di un truce poliziotto e di una casalinga con vistosi limiti mentali, Barney cresce divorando tutta la letteratura possibile:

“Leggevo dalla mattina alla sera, questo sì, ma prendereste una bella toppa se lo consideraste un segno di spessore umano. O peggio, di sensibilità. Con un salamelecco postumo a Clara (la prima moglie n.d.r.) devo qui riconoscere, a denti stretti, tutta la mia bassezza. Eh sì, sono un tipo squallido e competitivo. A far scoccare la scintilla non erano né La morte di Ivan IlicL’agente segreto, ma una rivista, la cara vecchia «Liberty», che in calce a ogni articolo riportava il tempo di lettura previsto. Avevano calcolato cinque minuti e trentacinque secondi? Benissimo, io mi toglievo dal polso l’orologio di Topolino, lo piazzavo sulla cerata a quadretti del tavolo di cucina e divoravo il pezzo in questione, che so, in quattro minuti e tre, sentendomi un vero intellettuale.”

e, sogna di vivere fra artisti nella Parigi bohémienne. Cosa che, ventiduenne fa: nel 1950 s’imbarca sulla Queen Mary e salpa per Parigi, dove conosce una generazione di artisti squattrinati ma destinati a diventare famosi.

“Comunque per me il destino non aveva in serbo fama, ma ricchezza. Una ricchezza, va detto, di umili origini.”

Traffica infatti un po’ di tutto, esportando oltre il limite della legalità:

“Ma ho anch’io i miei principi. Non ho mai venduto armi, droga o cibi dietetici.”

Si sposa tre volte: prima per pietà e un senso del dovere che lui stesso non sa di provare; la fortunata è Clara, un’artista disturbata, incompresa e ninfomane (ma solo con gli altri) morta poi suicida per via di una stupida mancata sincronicità  – che fa molto Romeo e Giulietta –, che però Barney mai si perdonerà.

La seconda moglie, chiamata la Seconda Signora Panofsky, viene scelta soltanto per fare un dispetto alla prima (già morta) e incarna tutto quello che Barney disprezza: figlia di ebrei miliardari, laureata soltanto per potersene vantare, logorroica, civettuola e, la più infame delle colpe, è poco colta e per nulla intellettuale. Barney s’impegna comunque a rovinare tutto quello che lei ha di buono, iniziando dal giorno stesso del matrimonio. Matrimonio organizzato (per sfiga) proprio il giorno della finale di hockey – la più grande passione di Barney – che fa anche da sfondo per l’incontro di Barney con l’amore della sua vita:

“Quando mi ritrovavo a passeggiare in quelle stanze nel cuore della notte, con l’ennesimo bicchiere in una mano ed il miliardesimo Montecristo nell’altra, chiudevo gli occhi e ripensavo a Miriam, a come mi era apparsa il giorno delle mie nozze con la Seconda Signora Panofsky. La donna più bella che avessi mai visto. Lunghi capelli neri come l’ala di un corvo. Occhi blu da perdere la testa. Un vestito da cocktail di chiffon azzurro, e una grazia meravigliosa, meravigliosa. Dio, quella fossetta. E quelle spalle nude… Sono tre anni che Miriam se n’è andata, ma continuo a dormire da una parte del letto, e appena mi sveglio la cerco. Miriam, mia adorata Miriam.”

Miriam, la terza moglie, è persino troppo per lui. E lui lo sa. Vivono insieme per trent’anni, hanno tre figli e una vita che avrebbe potuto essere perfetta. Se solo Barney avesse smesso di fare Barney.

Oltre alle mogli, Barney Panofsky continua a coltivare la passione per l’arte, per l’hockey e per la bottiglia. Si comporta da carogna con tutti, si vergogna profondamente della mediocrità che la sua casa produttrice continua a sfornare a suon di dollari, critica chiunque e non è mai felice. Oppure lo è, ma lo capisce troppo tardi.

Fra le altre cose, litiga con Boogie, uno dei suoi pochi amici, gli spara un colpo (sopra la testa) e, ubriaco, se ne va a dormire. Boogie, andato a fare un bagno nel lago, non ritorna mai più. Per non farsi mancare niente, Barney viene accusato di omicidio e, assolto per un colpo di fortuna (e per l’assenza di un corpo)), si porta il marchio da omicida per tutta la vita. La sua versione (La versione di Barney, appunto) è quella dell’innocenza, imputando a Boogie (un tossicomane scrittore di talento, ma senza ispirazione) di essere sparito e di non essersi presentato neanche al processo per salvargli la pelle.

Il personaggio Barney

Nel descrivere il personaggio di Barney Panofsky si farebbe prima ad elencare i difetti che non ha. Egocentrico, misogino, traditore, invidioso, bugiardo, vendicatore, rancoroso, razzista, maleducato, ubriacone, insomma: non manca niente. Un uomo che sembra incapace di empatizzare con i suoi simili, uno che prende crudelmente in giro il compagno di scuola timido e balbuziente, uno che spedisce oscene lettere anonime a chiunque abbia più successo di lui, uno che si vanta dei suoi difetti… Come si fa a provare simpatia per uno così?

“Si tratta peraltro di sentimenti avallati da quel grande moralista del dottor Johnson, il quale una volta espose a Edmond Malone, uno studioso di Shakespeare, la propria idea di biografia: «Se dei personaggi ci viene mostrato solo il lato migliore, restiamo sconfortati, perché riteniamo impossibile imitarli in alcunché. I grandi scrittori descrivono anche le azioni più basse degli uomini, non solo quelle virtuose. E questo sortisce un effetto benefico, perché risparmia all’umanità la disperazione».”

Eppure Barney risulta simpatico, ci si affeziona a lui, gli si vuole persino un po’ bene. Sì, forse perché vediamo in noi alcuni lati del suo carattere – ma senza il suo coraggio nel riconoscerlo –, o magari perché ritroviamo in lui qualcosa di noi, qualcosa di fragile da nascondere sotto una corazza di sbagli.Due bicchieri con whiskey e ghiaccio e un sigaro

I temi di La versione di Barney

Anche se il lettore viene completamente sopraffatto dalla ingombrante figura del personaggio Barney, non può far a meno di leggere fra le righe le innumerevoli frecciate più o meno velate (e, per me, più o meno comprensibili) e completamente e totalmente politically incorrect che non risparmiano niente e nessuno:

  • il bigottismo della società

“Se appena hanno studiato a Oxford o Cambridge, o guadagnano più di centomila sterline l’anno, non sono più ebrei, ma ‘di origine ebraiche’. Che non è la stessa cosa.”

  • la politica

“Mi sembra ieri quando i separatisti hanno ufficialmente aperto la campagna referendaria con uno spettacolo andato in scena al Grand Théâtre di fronte a un migliaio di adepti. Ricordo bene la loro prolissa (oltreché intempestiva) Dichiarazione d’Indipendenza, recitata da una coppia sotto i riflettori. Più che a Thomas Jefferson, sembrava ispirata alle cartine dei cioccolatini:

«Noi, il popolo del Quebec, ci dichiariamo liberi liberi di scegliere il nostro futuro. Conosciamo l’inverno del nostro spirito. I suoi giorni di ghiaccio, la sua solitudine, la sua falsa eternità e le sue morti apparenti. Sappiamo cosa significa il morso del gelo sulle carni.»”

  • il razzismo (o la situazione delle “razze”)

“… gli israeliani ormai sono gli unici antisemiti che ci rimangono…”

“Presto Israele diventerà un paese goyish come qualsiasi altro…”

“Lo so, se avessi patito quello che hanno patito loro in America, la penserei nello stesso modo, sarei anch’io convinto che Adamo ed Eva in realtà erano neri, solo che poi Caino, sentendosi accusare da Dio dell’omicidio di Abele, era sbiancato.”

“Non sarà per caso, magari senza saperlo, l’ennesimo antisemita ebreo alla Philip Roth?”

  • la religione

“Ma il Dio toccato in sorte a noi ebrei è famoso per essere crudele e vendicativo. Secondo me Geova è stato anche il primo cabarettista giudeo, e Abramo la sua spalla. Vorrei ricordarvi cosa gli disse: «Prendi tuo figlio, tuo unico figlio, che ami tanto, Isacco, e portalo nella terra di Moriah; e lì immolalo su un rogo che erigerai in cima alla montagna che ti indicherò.» E così Abe, primo di una lunga serie di leccapiedi ebrei, alzò il culo e fece quanto gli era stato ordinato. Costruì un altare, accatastò per benino la legna, quindi legò suo figlio come un salame e ce lo depose sopra. «Scusa, papino» disse Isacco a dir poco spiazzato. «La legna e il fuoco ce li abbiamo. Quello che non vedo però è l’agnello sacrificale». Per tutta risposta Abe sguainò un pugnale, pronto a scannarlo. A questo punto Geova, sganasciandosi dalle risate, spedì giù un angelo, il quale proclamò: «Fermati, Abe. Non alzerai la mano su tuo figlio».”

  • l’arte

“Per quanto mi riguarda tutti gli scrittori o i pittori che ho conosciuto, nessuno escluso, erano degli spudorati promotori di se stessi, vigliacchi, pronti a mentire per un piatto di lenticchie, avari da far schifo e disposti a tutto per un po’ di gloria. Quello spaccone di Hemingway, che pure aveva un indubbio fiuto per le patacche, improvvisò le sue memorie della Grande Guerra a tavolino. Lewis Carroll, adorato da generazioni di bambini, non era precisamente il tipo cui avreste affidato volentieri per una sera la vostra figlia decenne. Il compagno Picasso durante l’occupazione di Parigi leccò ben benino il sedere ai nazisti. Se Simenon si è davvero scopato diecimila donne mi mangio la paglietta. Clifford Odets denunciò tutti i suoi amici al Comitato per le Attività Antiamericane. Malraux rubava, e Lillian Hellman mentiva spudoratamente. Quell’adorabile vegliardo di Robert Frost nella realtà era un vecchio sporcaccione. Meneken, un verme purissimo, detestava gli ebrei, anche se meno del noto plagiario T.S. Eliot, o di molti altri di cui preferisco tacere. Evelyn Waugh era un arrampicatore sociale, e Frank Harris con tutta probabilità morì vergine. Sartre esibiva un curriculum da resistente parecchio lacunoso, e, tanto per pareggiare i conti, dopo la guerra diventò un apologeta dei gulag. Edmund Wilson era un evasore fiscale, e Stanley Spencer l’uomo più noioso del pianeta. T.E. Lawrence col cavolo che si era letto tutti i libri della Biblioteca di Oxford. Quanto a Marco Polo, il suo Regno di Mezzo non sembra poi così diverso da piazza San Marco. E benché non esistano prove a riguardo sono certo che Omero aveva dieci decimi di vista.”

“Mi sono portato a letto ‘La Vita di Samuel Johnson’, libro da cui non mi separo mai – più che altro perché, casomai spirassi nel sonno, è quello che vorrei mi trovassero sul comodino.”

  • la malattia e la vecchiaia
“Adesso telefono. Non ci posso credere. Non riesco a ricordarmi chi ha scritto L’uomo dal vestito grigio. O era L’uomo in gessato blu? No, quello è della bugiarda matricolata, Lillian vattelapesca. Lillian, Lillian? E su, lo sai benissimo. Come la maionese. Lillian Kraft? No. Ali, ecco, Hellman. Lillian Hellman. Come si chiama l’autore dell’Uomo dal vestito grigio non importa. Non me ne frega niente. Però ormai mi sono fissato, e se non mi viene in mente non riuscirò a chiudere occhio. 
Detesto questi vuoti di memoria. Ormai mi capita sempre più spesso. C’è da diventare matti.”
“Disteso al buio, imprecando, ho recitato a voce alta il numero da chiamare in caso di infarto.
«Siete in linea con il Montreal General Hospital. Se disponete di un apparecchio con toni in multifrequenza, e conoscete il numero dell’interno che vi interessa, digitatelo adesso. Altrimenti digitate 17 per il servizio nella lingua dei maudits anglais, o 12 per il servizio en francais, il meraviglioso idioma della nostra comunità oppressa».
Per il servizio ambulanze, digitare 21.
«Servizio ambulanze. Vi preghiamo di rimanere in linea. 
L’operatore risponderà appena finita la mano di strip-poker. 
Vi auguriamo una buona giornata».
Musica di cortesia, il Requiem di Mozart.”

Oltre a toccare le problematiche socio-politiche del tempo (e forse – no, senza forse – mi servirebbe più conoscenza per comprenderle appieno) e tracciare un quadro molto chiaro dell’epoca, Barney vanta una vastissima cultura, citando a profusione nomi, poesie e frasi che confesso di aver riconosciuto per un quarto, ma che spingono un lettore attento a voler scoprire di più.

Cosa è successo a Boogie

Pare che, per quanto riguarda il libro La versione di Barney, la voce “come muore Boogie” è fra le più ricercate e ciò mi porta a pensare che, pur avendo letto il libro, alcuni non hanno compreso cosa sia successo. Essendo io di indole magnanima, ve lo spiegherò con un’altra citazione (contiene SPOILER):

“E poi mi sono seduto in veranda, a ripensare ai bei tempi, quando all’improvviso un enorme aereo cisterna è spuntato dal nulla, si è abbassato sul lago, e senza neppure rallentare ha tirato su non so quante tonnellate d’acqua, che poi è andato a scaricare sulle montagne.”

Conclusione

Meglio o peggio, siamo tutti fatti dalla stessa pasta. Non sarebbe male però ricordare più spesso che non bastano le parole per far avverare le nostre speranze.

“C’è stato un tempo in cui osavo sognare che Miriam e io, superati i novanta, saremmo spirati insieme, come Filemone e Bauci. E allora un munifico Zeus, con un lieve tocco del caduceo, ci avrebbe trasformato in due alberi vicini, coi rami che si sfiorano d’inverno, le foglie che si intrecciano a primavera.”

 

Annabelle Lee