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Pastorale americana – il sogno universale

“La vita è solo un breve periodo di tempo nel quale siamo vivi.”

(Meredith Levov)

Pastorale americana di Philip Roth è un altro di quei libri dal titolo ben noto da cui ho sempre girato alla larga. Vuoi per i messaggi subliminali che il titolo inviava alla mia indole pessimista, vuoi per l’immagine in copertina che mi diceva chiaramente: “quel che è stato, è stato, ora nulla è rimasto”, o forse semplicemente per la ridondanza di un Pulitzer (vinto nel 1997 per Pastorale americana, appunto).

Ma Pastorale americana è un grande titolo ed è un grande libro. La mia non sarà dunque una vera recensione, non ho nulla da recensire, in quanto le qualità di questo libro sono ben note, nonché molteplici. Quello che posso fare invece è condividere con voi le riflessioni che mi ha scaturito.

Il titolo: Pastorale americana

Il titolo del libro di Roth racchiude in due parole vari indizi che possono indirizzare il lettore a pregustare la trama. Inizialmente si è quasi certi, ma poi qualche dubbio viene. Già dalla pastorale, perché la Treccani parla di pastori e vita bucolica, un po’ sperata e un po’ immaginata, oppure di retorica vescovile fatta predica; altrettanto fa Roth: non parla di pastori, ma di guantai, e lo fa raccontando la bellezza di quel che si sperava, per poi affogarla definitivamente nelle miasmose paludi della realtà. Oppure americana, che ci indica un’etnia, un popolo, un’appartenenza. Poi scopri che sono sì americani, ma di più ebrei, o italiani, o polacchi, o irlandesi. E qualche dubbio ti viene. Sull’America fatta da americani ebrei, o italiani, o polacchi, o irlandesi eppure così razzista, come se lei, l’America, avesse almeno una goccia di sangue puro. Come se qualcuno ce l’avesse. Come se contasse. Ma questa non è una storia di razzismo. Questa è la storia del sogno americano. Il sogno universale.

Pastorale americana – una storia come tante

Newark, New Jersey, un po’ sobborgo, un po’ periferia, ma che prova a darsi una sua dignità in quegli anni ‘50 nei quali si è tutti alla ricerca di una smarrita stabilità. Roth ci racconta la storia di una famiglia. La storia di un’epoca. La storia di un Paese. Lo fa attraverso il personaggio Nathan Zuckerman, suo alter-ego – anch’esso scrittore – spettatore o, addirittura, lettore del libro a sua volta. Con la scusa di un incontro di ex-alunni della propria scuola, Nathan riesuma uno stralcio della propria infanzia in cui lui non conta niente, in quanto i veri protagonisti erano altri. A partire dal famoso, perfettissimo, irraggiungibile Seymour Levov, detto Lo Svedese, fratello maggiore di un suo compagno di classe. Molto ebreo e un po’ ariano, Seymour è il figlio perfetto di una famiglia di guantai di Newark. Il padre, Lou Levov, ha un solo chiodo fisso in testa: farcela. La fabbrica di guanti, la famiglia sistemata, i figli perfetti. Non aspetta che la fortuna caschi dal cielo – lui alla fortuna neanche ci crede –, si dà da fare, suda in concerie puzzolenti magistralmente descritte, mette al mondo due figli, li indottrina a dovere, compra una fabbrica, ci si piazza al suo centro e lavora più di prima; i figli crescono, il grande dà grosse soddisfazioni: eccelle in una serie di sport molto americani, ha la testa sulle spalle, si arruola nei Marines, è richiesto ovunque. Il piccolo ha un pò di rabbia repressa, ma niente che non si sistemi con il tempo. I Levov ce l’hanno fatta, il sogno è diventato realtà.

La storia va avanti: Seymour è una giovane stella che ha il mondo ai suoi piedi. Ma la dottrina ha funzionato: continua la strada intrapresa dal padre, impara a fare i guanti, manda avanti la fabbrica, fa le scelte giuste. Sogna una bella casa in solidi mattoni, una famiglia da cartolina, inclusa la bimba sull’altalena in giardino. Nulla di male.

Sposa la bellissima Dwan, ex Miss New Jersey, si compra esattamente la casa dei sogni (che il padre non manca di inquadrare con tagliente pragmatismo: “Scalda questo posto, ti costerà un occhio della testa e morirai congelato”), ha persino una dolcissima figlia, Merry, che si dondolerà sull’altalena del vecchio albero in giardino. Tutto perfetto.

Una vita appagata: il marito ideale e il padre perfetto, alto, biondo, muscoloso, bello come un sole; la mogliettina minuta, bambolina delicata ma piena di grinta, la figlioletta angelo, la fabbrica di proprietà, la casa su misura dei sogni. Potrebbe essere la cartolina pubblicitaria per reclutare nuovi immigrati (al tempo in cui gli immigrati facevano ancora comodo a costruire un Paese).

Ebbene, servono una ventina di anni a Nathan e intorno a 500 pagine a Roth per palesarci il fatto che la perfezione non esiste. Ma questo non è un libro sulla scoperta dell’ovvio.

Lo stile di Pastorale americana

Nella scrittura di Roth c’è una bellezza che vibra fin dentro lo stomaco, ti stordisce con la sua potenza e ciò fa da contrasto all’amarezza di fiele della narrazione. Forse è questo il modo dello scrittore di bilanciare quella che un mio amico ha definito “la sua narrativa distruttiva” con uno stile mai pretestuoso e sublime.

Fra le altre cose, Roth parla di guanti. Cos’è un guanto? Un indumento a cui nessuno pensa, si usa all’occorrenza e basta, non ha né vita, né poesia. Ma Roth non è nessuno, lui ci costruisce un intero mondo, un mondo che diventa reale sotto ai vostri occhi man mano che andate avanti con la lettura. È un mondo fatto di cuciture ad arte, un mondo che odora di pelle di capretto, un mondo popolato da tagliatori di pellame e reso assordante dalle macchine da cucire, in cui ogni guanto ha una storia scritta nella grana della pelle. Roth riesce a trasformare il guanto in un mondo, un mondo che sembra l’unico mondo. E così scopri che Walter Scott era figlio di un guantaio. E poi cita Romeo e Giulietta:

“Vedete come appoggia la gota alla mano? Vorrei essere solo il guanto che copre quella mano, così potrei toccare quella gota.”

Così scopri che anche William Shakespeare era figlio di un guantaio. Analfabeta, ma che creava già poesia.

Pastorale americana e i suoi personaggi

Nonostante alcuni definiscano Pastorale americana un romanzo corale, i personaggi non sono poi così tanti. Ma tutti sono difficili da inquadrare.

C’è Lou Levov, il padre, l’unico davvero lineare nella sua assurda fissazione di farcela, quello a cui, in un primo momento, si pensa di attribuire le colpe morali, ma il quale, sotto sotto, è il più aperto al cambiamento, basta pensare allo strepitoso dialogo intavolato con la cattolicissima futura nuora, Dawn, riguardo al battesimo di un ipotetico nipote:

“Io vorrei che mio figlio fosse battezzato.

AH, Sì?

Si può essere aperti finché si vuole, signor Levov, ma non quando si tratta del battesimo.

COS’È IL BATTESIMO? COS’HA DI TANTO IMPORTANTE ?

Beh, tecnicamente è un lavacro che toglie il peccato originale. Ma quello che fa è che, se dovesse morire, fa andare il bambino in paradiso. Altrimenti, se muoiono prima di essere battezzati, restano nel limbo.

BEH, DIO CE NE GUARDI. MI PERMETTA DI FARLE UN’ALTRA DOMANDA. PONIAMO CHE IO DICA: OKAY, POTETE BATTEZZARE IL BAMBINO. CHE ALTRO VORREBBE, LEI?

Credo che, quando fosse il momento, vorrei che i miei figli facessero la prima comunione. Ci sono i sacramenti, vede…

ALLORA LEI VUOLE IL BATTESIMO PERCHÉ, DAL SUO PUNTO DI VISTA, SE IL BAMBINO MUORE VA IN PARADISO, E ANCHE LA PRIMA COMUNIONE. PUÒ SPIEGARMI DI CHE SI TRATTA?

È la prima volta che prendiamo l’eucaristia.

E CHE ROBA È?

Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue…

STA PARLANDO DI GESÙ?

Sì. Non la conosce? Sa, quando tutti s’inginocchiano… «Questo è il mio corpo, mangiatene. Questo è il mio sangue, bevetene». E poi dici «Mio Signore e mio Dio» e mangi il corpo di Cristo.

NON POSSO ARRIVARE FINO A QUESTO PUNTO. MI SPIACE, NON POSSO ARRIVARE FINO A QUESTO PUNTO.

Beh, purché ci sia il battesimo, al resto penseremo dopo. Perché non lasciamo decidere al bambino, quando sarà il momento?

PREFERISCO NON LASCIARE DECIDERE AL BAMBINO, DAWN. PREFERISCO DECIDERE IO. NON VOGLIO FAR DECIDERE A UN BAMBINO SE VUOLE O NON VUOLE MANGIARE GESÙ. HO IL MASSIMO RISPETTO PER QUELLO CHE LEI FA, MA MIO NIPOTE NON MANGERÀ GESÙ. MI SPIACE. È FUORI DISCUSSIONE. ECCO QUELLO CHE FARÒ. LE CONCEDERÒ IL BATTESIMO. È TUTTO QUELLO CHE POSSO FARE PER LEI.

Tutto qui?

E LE CONCEDERÒ IL NATALE.

Pasqua?

PASQUA? VUOLE LA PASQUA, SEYMOUR. SA PER ME COS’E LA PASQUA, CARA DAWN? LA PASQUA È IL MOMENTO IN CUI SI ACCUMULANO TUTTE LE CONSEGNE. PRESSIONI DI OGNI GENERE PER AVERE I GUANTI IN TEMPO PER LA GENTE CHE A PASQUA RINNOVA IL GUARDAROBA. LE RACCONTERÒ UNA STORIA. IL 31 DICEMBRE DI OGNI ANNO, NEL POMERIGGIO, NOI ESAURIVAMO TUTTE LE ORDINAZIONI DI QUELL’ANNO, MANDAVAMO TUTTI A CASA, E CON I MIEI CAPIREPARTO IO STAPPAVO UNA BOTTIGLIA DI CHAMPAGNE, E PRIMA CHE AVESSIMO FINITO DI BERE IL PRIMO SORSO, TRIIIN, IL TELEFONO, DA UN NEGOZIO DI WILMINGTON, NEL DELAWARE, LA CHIAMATA DI UN ACQUIRENTE CHE VOLEVA CENTO DOZZINE DI GUANTINI DI PELLE, BIANCHI. PER VENT’ANNI O GIÙ DI Lì ABBIAMO SEMPRE SAPUTO CHE SAREBBE ARRIVATA QUELLA TELEFONATA CON L’ORDINAZIONE DELLE CENTO DOZZINE MENTRE NOI BRINDAVAMO ALL’ANNO NUOVO, E QUELLI ERANO GUANTI CHE SERVIVANO PER PASQUA.

Era la vostra tradizione.

PROPRIO COSì, SIGNORINA. E ORA MI DICA, COS’È LA PASQUA, PER LEI?

Lui che risorge.

LUI CHI?

Gesù. Gesù risorge.

SIGNORINA, È UN BOCCONE AMARO QUELLO CHE LEI MI COSTRINGE A INGHIOTTIRE. IO CREDEVO CHE FOSSE QUANDO FATE LA PROCESSIONE.

Sì, facciamo anche la processione.

BENE, D’ACCORDO, LE CONCEDERÒ LA PROCESSIONE. SIAMO INTESI?

Noi per Pasqua mangiamo il cosciotto.

SE VUOLE IL COSCIOTTO PER PASQUA, VADA PER IL COSCIOTTO. CHE ALTRO?

Andiamo in chiesa col cappellino nuovo.

E CON UN PAIO DI BUONI GUANTI BIANCHI, SPERO.

Sì.

VUOLE ANDARE IN CHIESA IL GIORNO DI PASQUA E PORTARE CON SÉ MIO NIPOTE?

Sì. Saremo quelli che mia madre chiama «i cattolici da una volta l’anno».

È TUTTO? UNA VOLTA L’ANNO? (Batte le mani). SIAMO D’ACCORDO. UNA VOLTA L’ANNO. AFFARE FATTO!”

Poi c’è Dawn Dwyer, moglie perfetta del perfetto Seymour, piena di ansie e di insoddisfazioni, bellissima e scontenta di esserlo.

C’è poi l’elemento rovina-tutto: Meredith Levov detta Merry, la deliziosa bimba boccolosa con qualche problema edipico, poi anarchico, poi terrorista. Il tutto solo per il gusto di farsi plagiare dalla peggio gioventù per contrastare l’orribile sistema di cui fa parte un padre non abbastanza schiavista da poterlo accusare di sfruttare i suoi operai e un nonno non abbastanza limitato mentalmente da potersela prendere per davvero con lui. In Vietnam la gente muore senza ragione, il capitalismo è la bestia nera dell’America, l’anarchia è la soluzione, ah, no, il terrorismo, ah, no, il gusto di scegliere sempre la cosa sbagliata.

Jerry Levov, il fratello minore di Seymour, quello che si salva dalla parvenza di perfezione obbligata della sua famiglia. Si sposa tre volte, vive a modo suo, offre soluzioni sensate a problemi insormontabili.

Ho lasciato per ultimo il personaggio principale: Seymour Levov. Lui ha tutta la nostra comprensione: vuole fare la cosa giusta, si arrovella continuamente, vuole accontentare tutti, non vuole mai deludere le aspettative, vuole salvare le apparenze. È talmente incastrato nel meccanismo da non realizzare nemmeno di aver smesso di essere vivo. Diventa quindi la definizione contraria data dalla tanto amata figlia assassina: “La vita di Seymour è quel breve periodo di tempo nel quale lui non è vivo.”

Conclusioni

Pastorale Americana è un bel libro. Se lo avete letto, lo sapete già. Se non lo avete letto, leggetelo. Non per le mie parole, ma per scoprire la vostra verità.

“La vita è un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco e poi non se ne sa più niente. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strepiti e furore, significante niente.”

(Macbeth – William Shakespeare)

 

Annabelle Lee