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“Il curioso caso di Benjamin Button” di F. S. Fitzgerald

Un racconto breve, poiché di libro non si può parlare, dal quale ha preso spunto David Fincher, quando ha diretto l’omonimo film con Brad Pitt nei panni del curioso Benjamin Button.

Questo credo sia l’unico caso in cui il film è più complesso, ampio e – a tratti – più profondo del romanzo dal quale è tratto.

Lo stesso autore ha dichiarato di essersi ispirato a un’affermazione di Mark Twain e che ha provato a dimostrare in poche – sebbene ben contestualizzate – pagine.

Ecco la parte tratta dall’opera “Racconti dell’età del jazz”, sempre di Fitzgerald:

“Questo racconto fu ispirato da un’osservazione di Mark Twain: cioè, che era un peccato che la parte migliore della nostra vita venisse all’inizio e la peggiore alla fine. Io ho tentato di dimostrare la sua tesi, facendo un esperimento con un uomo inserito in un ambiente perfettamente normale. Parecchie settimane dopo che ebbi terminato questo racconto, scoprii un intreccio quasi identico negli appunti di Samuel Butler.”

La trama di “Il curioso caso di Benjamin Button”

Difatti Benjamin Button è un personaggio comune dell’epoca in cui è ambientato il racconto, che è la seconda metà del 1800, ma alla sua apparente “normalità” viene aggiunta una peculiarità stravagante: Benjamin nasce vecchio.

A differenza del film, il piccolo vecchietto non è un neonato dalla pelle raggrinzita, ma è un anziano a tutti gli effetti, con tanto di barba e sviluppo corporeo completo.

Ora, immaginatevi cosa sarebbe osservare un vecchio neonato e soprattutto è un bene che nel libro non si citi la madre e il suo destino come puerpera e partoriente né come avesse potuto contenere nel ventre un anziano fatto e finito, che parla in modo fluido e consapevole.

A parte questi dettagli, che sono più razionali che legati all’esperimento dell’autore, provate a immaginare le reazioni delle persone di fronte a una stranezza così eclatante.

Chi potrebbe mai credere a un fatto del genere? Solo chi ha assistito alla nascita, mentre per gli altri, padre compreso, resta un’incognita senza soluzione alcuna.

Non è tutto qui, infatti, Benjamin crescendo d’età ringiovanisce e, con il passare degli anni, le sue abilità rimangono legate proprio a quegli anni che dimostra o che dovrebbe avere, nessun legame con l’età anagrafica effettiva.

Anche qui ci si potrebbe addentrare in una spiegazione metafisica: di come noi siamo legati alla nostra nascita corporea, anziché a una consapevolezza ultraterrena. Bisognerebbe comunque credere alla rinascita e non all’ipotesi cristiano-cattolica dell’esistenza.

Benjamin, da piccolo vecchio vuole il bastone e da cinquantenne adolescente vuole divertirsi, da sessantenne bambino inizia ad amare il gioco a da neonato ormai vetusto piange, mangia e dorme.

È stato bello vedere come ogni aspetto dell’esistenza, almeno secondo Fitzgerald, resta legato all’apparenza fisica e non alla reale età anagrafica. Ciò che noi dovremmo essere e, forse, non siamo. Questo aspetto è stato modificato nella trasposizione cinematografica che, a parere mio, è più fedele all’intento contenuto nelle parole di Mark Twain.

I temi di “Il curioso caso di Benjamin Button”

Secondo la dimostrazione di Fitzgerald, nulla muta davvero. Secondo il regista del film, invece, non è così, poiché il protagonista fa tesoro dell’esperienza, che parte da “zero” nei panni di un neonato rugoso, fino a doverla dimenticare, quando diventa troppo giovane per ricordare quel passato ormai troppo lontano.

La mia domanda, quindi, è: qual è il senso di vivere una vita al contrario? Quando l’inizio, più o meno, coincide con la fine? Tranne per l’autore del racconto breve, che cambia l’età neoanziana, dando voce e robustezza a una realtà che non dovrebbe esserne provvista.

Mark Twain voleva, forse, dare alla gioventù la consapevolezza dell’età adulta; aspetto quantomeno impossibile, dato che, per l’utilizzo dell’Intelligenza a cui noi siamo in grado giungere, non possiamo fare altro che collezionare esperienze e, se siamo bravi, imparare da esse.

Credo di dovermi fermare qui, senza dover scendere in meandri complessi e personali di discernimento umano, tuttavia mi piacerebbe leggere qualcosa di più approfondito su questo argomento.

Torniamo al racconto in sé e all’autore, Francis Scott Fitzgerald, per comprendere – magari – meglio questa piccola opera.

Conosciuto soprattutto per il romanzo Il grande Gatsby, fu un autore molto prolifico e con un talento molto versatile. Come il protagonista, Gatsby, amava profondamente il benessere e la ricchezza, sostanzialmente narcisista, ha sempre cercato il successo, la fama e la bella vita che ne sarebbero conseguite.

I suoi nonni erano benestanti e, a seguito del raggiungimento di questo status, meitevoli di un discreto rispetto sociale. I principi alla base di una tale realtà – borghesia arricchita del sud degli Stati Uniti – hanno influenzato molto Fitzgerald, ma – ahimè – suo padre fu povero e la donna amata, più amante del benessere che dell’uomo.

Sulla base, quindi, di queste premesse e senza nulla togliere al suo talento di autore e anche di regista teatrale (così dicono), colgo la sua essenza anche in questo breve racconto. Non dimentichiamo, infatti, che Fitzgerald viene considerato uno dei principali esponenti dell’Età del Jazz,  quel periodo che va dal 1918 al 1928, l’epoca della Grande Depressione e dei primi accenni al modernismo anche e soprattutto in campo letterario.

Sicuramente “Il curioso caso di Benjamin Button” non ne è la massima espressione, ma ne fa parte, per i temi trattati e quel filo di pessimismo tipico del tempo.

Conclusione

È stata una lettura fugace e interessante, anche se – per la prima volta – ho preferito il film al libro, troppo breve e sbrigativo.

 

Giorgia Golfetto