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CONFESSIONI DI UN BORGHESE di Sandor Marai – trama e recensione

Premessa

Una confessione implica una colpa, un peccato dal quale bisogna emendarsi. L’imputazione che Sandor Marai attribuisce a se stesso, e dalla quale non accenna a difendersi, è quella di essere nato con la camicia, di aver vissuto da borghese senza riuscire mai ad emanciparsi del tutto. Ma è davvero un demerito, una condizione così esecrabile quella di appartenere per nascita ad una classe sociale privilegiata? Quella di vivere senza essere esposti alle tribolazioni della miseria? A quanto pare sì, secondo l’autore. Altrimenti non si sarebbe disturbato a denudare le proprie vergogne (esistenziali), scrivendo la sua biografia romanzata, a soli 34 anni, ed esponendo il fianco al giudizio del lettore.

Presentazione di Confessioni di un borghese

Un libro di memorie, dunque, che non presenta una trama avvincente né le caratteristiche tipiche del romanzo. Scritto con una prosa piacevole, mai intricata, scevra di manierismo, ricca di scelte lessicali dal carattere poliglotta, e che non contemplano le volgarità. Uscito negli anni ‘30, fu diviso in due sezioni narrative. Nella prima c’è la descrizione dei natali, della fanciullezza, della giovinezza. Ma anche, e soprattutto, un’aspra critica ai principi e agli atteggiamenti che contraddistinguono la borghesia. Primo fra essi è il distacco sociale, ovvero la superbia di considerarsi superiori in virtù della propria agiatezza, il contegno scostante ed altezzoso dimostrato nei confronti del proletariato. Il borghese non si mischia mai al resto della società, fa di tutto per rimanere immune alla povertà, alla miseria, e per non lasciarsi contagiare o degradare da essa.


Quel che in definitiva mi venne inculcato, a scuola come a casa, era che “la povertà non è una vergogna”, che ai poveri era giusto rivolgersi con la stessa cortesia dovuta alle persone del nostro ambiente, e che anzi era giusto consolarli, perché “non è colpa loro”. In virtù di questa concezione assistenziale, da bambino pensavo che i poveri fossero tutti invalidi. E avevo anche il sospetto che fossero molto numerosi.
In quell’opulento mondo borghese di inizio secolo “i ricchi” e i “poveri” non erano ancora separati da un muro di slogan coniati apposta per istigare all’odio, come sarebbe avvenuto vent’anni dopo. Nel modo in cui i “signori” parlavano dei poveri, abbassando gli occhi, si avvertiva come un lieve senso di colpa: certo, è desolante, ma così va il mondo, e probabilmente per volontà di Dio, visto che è sempre andato così. […] La sensibilità sociale” dei bambini è fiacca, scarsamente sviluppata. Tutti i bimbi sono ambiziosi, e aperti sostenitori della proprietà privata senza restrizioni. Neanch’io da piccolo mi preoccupavo molto della condizione terrena dei poveri. Avevo il vago sospetto che la loro indigenza non fosse del tutto immotivata, probabilmente ne erano loro stessi responsabili, chissà, forse si erano macchiati di una colpa collettiva che adesso dovevano espiare. E sul loro conto ogni tanto mi capitava anche di cogliere qualche commento negativo: sono pigri, non hanno voglia di lavorare, e quel po’ che guadagnano lo spendono all’osteria. Mi ispiravano quindi un certo ribrezzo, e larvatamente li disprezzavo.”

 

Nobiltà, borghesia, povertà

Il ribrezzo è quindi il sentimento che il borghese prova per tutto ciò che è povero. È capace di accordare rispetto alle persone solo in funzione delle loro sostanze economiche. Anche nelle rare occasioni in cui sente il bisogno di manifestare solidarietà, di elargire un briciolo del proprio benessere, si rivolge a chi è più sfortunato con una compunzione che ha carattere manieristico. Ipocrisia bella e buona, a detta dell’autore, un atteggiamento costruito, artificioso, che si manifesta nei rapporti con gli strati inferiori della società e nello sfruttamento della servitù. Marai racconta le condizioni di vita dei servi e la mancanza di qualsivoglia tutela nei loro confronti in caso di malattia e al sopraggiungere della vecchiaia. A questo proposito, biasima l’opportunismo disinteressato del borghese, preferendovi il paternalismo della vecchia nobiltà feudale che, pur approfittando della servitù, non mancava di prendersene cura in caso di bisogno, né l’abbandonava all’indigenza. Il confronto tra la borghesia e la nobiltà dei tempi andati si ripete più volte e rivela il rimpianto che l’autore nutre per la società preindustriale, nonché il suo tentativo di attribuire una certa “superiorità morale” ai vecchi nobili rispetto all’esecrabile contegno borghese. Marai non manca mai di lagnarsi della decadenza dei tempi, tutta dovuta al cinismo della sua classe sociale. La nostalgia per il vecchio Regno di Ungheria, facente parte dell’impero austro ungarico, è palese. Spesso conduce l’autore ad esagerare nel vantare le amenità dei vecchi tempi di fronte alle brutture a lui contemporanee. C’è un prima e un dopo nella vita di Marai. Lo spartiacque è quello della Grande Guerra che segnerà la fine dell’epoca dell’abbondanza e di una certa umanità nei rapporti fra le classi sociali, nonché l’inizio di un periodo fosco e fortemente illiberale.

La trama di Confessioni di un borghese

La narrazione si apre con la descrizione del caseggiato in cui vive la sua famiglia, nella cittadina cosmopolita di Kassa, all’inizio del ‘900, mentre la civiltà danubiana tramonta per sempre. Si tratta di un palazzone dotato della vecchia corte interna, sulla quale si affacciano le vite di tutte le famiglie che vi risiedono. Vuoi o non vuoi, la corte diventa un luogo di confronto, nel quale si manifestano le differenze fra le varie etnie e fra chi è cattolico, chi protestante, chi ebreo e chi ebreo ortodosso. E se tali differenze non sfociano mai, per fortuna, nel cosiddetto “clash of civilization, definito in tempi più recenti dal politologo Huntington, conducono comunque alla stigmatizzazione del diverso. Così, per i borghesi alla Marai, il protestante è un miscredente, un “pagano”, mentre l’ebreo è un miserabile, un po’ strano, un po’ maligno. L’antisemitismo c’è ma rimane sottaciuto, e Marai non si lascia mai scappare l’occasione per imputarlo alla sua famiglia. Vive nell’abbondanza, questa famiglia, si nutre copiosamente, soprattutto a colazione, indossa capi di foggia più fine rispetto alla media, ed ha un rapporto tutto speciale con il denaro. Un rapporto di idolatria, immancabilmente, che il lettore può individuare (forse sorridendone) nella descrizione della banca:


Abitavamo al primo piano, e di fianco a noi alloggiava la banca. In origine, nella notte dei tempi, la banca occupava tre locali lunghi e bui: dal pianerottolo si entrava nell’ufficio del direttore, nella stanza attigua c’era la cassa, e in quella successiva , che dava sul cortile, era sistemata l’amministrazione. Lo studio di mio padre e l’ufficio del direttore avevano una parete in comune, nella quale era stato praticato un “passaggio segreto”, e se il direttore voleva comunicare qualcosa a mio padre (di professione notaio, ndr) doveva semplicemente aprire una porticina di lamiera e passargli la lettera, il documento o la cambiale protestata da esaminare. Questa gestione schiettamente patriarcale diede buoni risultati per decenni, e la banca prosperava. […]
Ma ai tempi in cui la piccola banca – la “nostra banca” – prosperava in quelle stanze buie al primo piano, della guerra non si aveva neppure il più vago sentore. Con la bisaccia sulle spalle, i clienti bivaccavano lungo le sale nei loro giacconi foderati di pelo d’agnello, in attesa del loro turno. Erano per la maggior parte contadini poveri […]
Uno dei ricordi più luminosi, tersi e gloriosi della mia infanzia è proprio il fatto che a casa avessimo anche una banca, una vera banca con tanto di cassiere e di denaro contante, dove bastava entrare e mettere una firma da qualche parte per vedersi consegnare subito i soldi. E a quei tempi le operazioni bancarie erano veramente qualcosa di semplice, limpido e trasparente. I contadini si presentavano al mattino – portandosi nella bisaccia un pezzo di lardo, una bottiglia di acquavite e l’estratto catastale redatto dal notaio – e aspettavano il loro turno. Tutti i giorni, a mezzogiorno in punto, si teneva la cosiddetta “censura”: i membri del Consiglio direttivo – due attempati sacerdoti (sic!), il direttore della banca e il suo consulente legale – si riunivano per una breve “riunione collegiale” in cui votavano i prestiti di cento o duecento corone, dopodiché l’amministrazione emetteva le cambiali, e nel pomeriggio i clienti se ne tornavano a casa con il prestito in tasca. L’abbondanza di denaro che in quegli anni dilagava per il mondo aveva raggiunto anche la nostra cittadina, non si faticava ad accordare prestiti personali, e il cassiere-capitano degli ussari a riposo liquidava anche cambiali concesse “per compiacenza” e “sulla parola”. Una volta scaduti i termini per il rimborso del prestito, il contadino pagava; in caso contrario, cinque dei suoi dieci iugeri di terra venivano messi all’asta, e l’acquirente era sempre la banca. Era un ramo d’affari semplice e genuino, conseguente e pacifico come i fenomeni naturali. La banca traboccava di soldi e si espandeva. E noi bambini del caseggiato eravamo oltremodo fieri di quel benevolo, simpatico istituto. I segreti finanziari degli adulti affascinavano i bambini almeno quanto gli enigmi della vita sessuale. Sapevamo perfettamente che nel nostro palazzo, all’interno di massicce e rudimentali casseforti, si custodiva quella cosa, più preziosa di ogni altra, che ricorreva con tanta insistenza nei discorsi degli adulti; vedevamo l’espressione umile delle persone che andavano a sollecitare un prestito, ascoltavamo le loro querule richieste, e le sentivamo rivolgersi con un balbettante “bacio le mani” a chiunque facesse parte della banca, inclusi gli uscieri. La consapevolezza che nel palazzo esisteva una banca, istituzione così caritatevole e dall’aria così familiare, rassicurava e al tempo stesso inorgogliva i bambini del caseggiato; a noi, che abitavamo in quel palazzo e facevamo parte della banca, non poteva accadere – così pensavamo niente di male. Credo che anche i nostri genitori fossero della stessa opinione. La casa era di proprietà della banca, che concedeva di buon grado agli inquilini dilazioni sul pagamento dell’affitto, e probabilmente pure piccoli prestiti. Pensavamo che il suo denaro appartenesse in qualche misura alla famiglia; era un mondo bonario, affabile e senza malizia: gli inquilini si presentavano in banca a chiedere un prestito un po’ come se si rivolgessero al capofamiglia o a qualche parente danaroso, e la banca sborsava, giacché a nessuno sarebbe mai saltato in mente che il debitore potesse saltare la corda senza farsi più vedere. I bambini hanno un senso innato per il denaro. Noi, che eravamo stati così fortunati da nascere all’ombra della banca, per crescere poi sotto il suo patrocinio, pensavamo di esserci sistemati presso la sorgente primordiale di ogni benessere terreno, ed eravamo convinti che anche in futuro non ci sarebbe mai potuto capitare nulla di male: sarebbe stato sufficiente rimanere in buoni rapporti con quella cara, piccola banca.

I temi di Confessioni di un borghese

E poi c’è il tema del matrimonio, l’analisi più vivida – e contemporanea, se vogliamo dello stile di vita borghese. Il connubio di doppiezza e avidità conduce fino alla contrattualizzazione del sentimento dell’amore. Si finisce con il relegarlo dentro lo strettissimo e labirintico corridoio della convenienza reciproca. Sandor Marai mette in luce non solo le contraddizioni di tale usanza ma anche le inevitabili e dolorose conseguenze che ne derivano:


“I matrimoni sono quasi sempre delle mesalliances (sposalizio con persona considerata inferiore per nascita, rango o disponibilità patrimoniale, ndr). I coniugi stessi ignorano che cosa abbia finito per dividerli con il passare del tempo. Non sapranno mai che l’odio latente che pervade la loro convivenza non è dovuto soltanto al fallimento dei rapporti sessuali, ma più semplicemente a un particolare antagonismo di classe. Vagano per decenni sulle distese di ghiaccio della noia e dell’abitudine e intanto si odiano, si odiano perché uno dei due è più distinto dell’altro, perché ha ricevuto un’educazione più raffinata e tiene il coltello e la forchetta in maniera più elegante, o perché ha conservato lo spirito di casta inculcatogli sin dall’infanzia . Quando il legame sentimentale si allenta, allora non tarda a scoppiare la lotta di classe tra due persone che dormono nello stesso letto, si servono dallo stesso vassoio, e, il più delle volte, non si rendono minimamente conto di che cosa le spinga a covare quel sordo rancore, mentre in apparenza la loro vita scorre tranquilla e serena. Ciò che detestano, invidiano o disprezzano nell’altro è la classe alla quale appartiene. Ovviamente, nel caso in cui il coniuge di estrazione più elevata sia l’uomo, alle donne non dispiace starsene al sole e insediarsi in pubblico, con tutti gli onori, sul podio offerto dalla posizione altolocata del marito, mentre in privato, a tavola e a letto, si vendicano con conseguente caparbietà di quella specie di affronto originario che hanno subito. Sono rarissimi i matrimoni in cui uno dei coniugi non si senta frustrato a causa del patrimonio dissipato o delle cariche prestigiose del bisnonno dell’altro, mentre di tanto in tanto il coniuge più distinto si sente in dovere di ripetere: “A casa nostra si faceva così e così”. La lotta di classe affiora sempre in seno alla famiglia.
Infatti divampava anche nella nostra.”


Qualcosa non funziona nelle famiglie borghesi. L’autore se ne accorge fin da bambino, rileva le magagne insite al suo nucleo familiare, se ne dispiace, se ne vergogna, prova a rinnegarle. È così che in lui nasce il germe della ribellione, è così che comincia la sua indagine sociologica, a carattere profano, basata sul microcosmo del suo parentado, nonché sullo studio di caratteri e attitudini dei suoi antenati. Uno studio che sfocia nell’autoconoscimento psicologico e caratteriale. Il bilancio, manco a dirlo, è negativo.

“Ecco tutto ciò che so di questo nonno che non ho mai conosciuto, visto che morì vent’anni prima che io nascessi. Appeso alla parete della mia stanza tengo il suo ritratto, al quale rassomiglio in maniera impressionante: anch’io ho una faccia godereccia, flaccida e grassoccia, con le labbra tumide e pendule, e se mi facessi crescere la barba sarei la copia esatta di quell’estraneo che mi fissa dalla fotografia. Da lui ho ereditato anche lo spirito vagabondo, la sensibilità, l’irrequietezza slava e le titubanze. Quell’uomo sconosciuto continua a vivere con prepotenza dentro di me. Probabilmente i nostri antenati non si limitano a tramandarci le fattezze; oltre alla bocca, alla fronte, agli occhi, alla forma del cranio, mio nonno mi ha trasmesso anche la gestualità, il modo di ridere, la lascivia, e una certa negligenza e trasandatezza. Anch’io vorrei portarmi in tasca la contabilità della mia vita e delle mie faccende. Ma dentro di me vive anche un altro nonno più brusco, austero e pedante, morto a sua volta in giovane età […]. Questi estranei con i quali sono costretto a convivere concedono poco spazio alla mia persona, all’individuo che ho forgiato procedendo tentoni e con fatica.

Si legge in queste pagine il tentativo di individuare la matrice delle proprie sofferenze, ma anche la giustificazione – un po’ patetica – dei propri limiti e delle proprie debolezze.
Insomma, queste memorie magiare hanno certamente un carattere proustiano, dunque intriso di nostalgia, di sana malinconia del passato, ma giungono presto alla denuncia amara e spietata di tutto ciò che non è sincero e trasparente nell’ambiente borghese. Sandor Marai è ipercritico verso le proprie origini, lotta contro se stesso per smascherare il grande inganno della borghesia. È un trucco al quale preferisce dare un nome tedesco: lebensluge (bugia esistenziale, ndr) e che lo tormenta fino al rigetto. Ci racconta, quindi, i suoi tentativi di ribellione, tutte le volte in cui diede del filo da torcere ai suoi genitori, tutto ciò che non gli perdona, tutta la sequela di delusioni che ha voluto, di proposito, procurargli. Apposta per scontentare le loro aspettative. Ma poi, nella seconda parte del libro, dimostra una devozione filiale insospettabile e manifesta una struggente commozione in occasione della dipartita del padre. Coinvolge il lettore nel proprio sincero dispiacere, così come lo aveva coinvolto nella propria ambivalenza caratteriale, lungo i picchi e gli abissi del proprio umore, nelle affermazioni personali e nelle sconfitte.

C’è anche un’ambivalenza sessuale in Sandor Marai. La sua omosessualità latente viene confidata al lettore con spontaneità, con la serenità di chi non ha nulla da nascondere. Si tratta, tuttavia, di una omosessualità mai manifesta, mai dichiarata, nella sua vita da adulto. Ma neppure repressa o osteggiata. È lasciata libera di esprimersi e turbargli qualche sogno, di veicolare qualche immagine ambigua.

Dualismo, quindi, doppiezza, dissidio interiore. Del resto, parliamo di un uomo che morirà suicida a 89 anni, che non smetterà mai di lottare contro la propria essenza. Se di certo è un feroce critico del nazifascismo, successivamente non manca mai di criticare il regime comunista instauratosi nel suo paese. La qual cosa gli costa l’esilio all’estero e un’emarginazione culturale dalla quale sa difendersi con l’arguzia della sua penna.

L’aspetto più affascinante di questa sua opera è la ricca congerie di personaggi che ci vengono presentati. Ciascuno di essi ha avuto un ruolo nell’esistenza dell’autore, minimale o cruciale, ma tutti hanno una propria personalità e sono espressione di un carattere umano ben individuabile. Ne consegue che il libro può essere letto anche come una serie di mini racconti, basati sulle vite di decine di servi, amici, parenti, conoscenti, amanti. Tutte storie mai tediose e mai banali.

Da parte mia, consideravo i domestici come parenti, ne cercavo la compagnia, e volentieri andavo a sedermi fra di loro nella cucina lavata di fresco, presso il focolare, per ascoltare i loro discorsi superstiziosi e le loro fantasticherie senza capo né coda, finché mia madre non mi scopriva e non mi ingiungeva di ritornare nell’altra ala dell’appartamento. Nel guazzabuglio di quelle innumerevoli facce di domestici, si staglia ancora davanti ai miei occhi l’immagine terrorizzante della signora Hajdù, una vecchia beona che di tanto in tanto, ubriaca fradicia e fermamente intenzionata ad ammazzare mia madre con tutta la sua prole, si scagliava contro di noi armata di un affilato coltello, dimenandosi come unossessa, tanto da mettere in difficoltà perfino gli agenti di polizia chiamati in soccorso. Come l’emissario del destino cieco nelle tragedie greche, la signora Hajdù compariva in pieno giorno, nei momenti più inaspettati, mettendo in fuga domestici, padroni ebambini, che, urlando, correvano a rintanarsi in cantina, in soffitta e nei ripostigli pur di scampare a quella femmina, la quale, come l’ossessa delle fiabe, avanzava barcollando per i corridoi della casa facendo balenare la sua lama acuminata, in cerca di bimbi da sacrificare per la sua merenda. E una delle cause della mia ipersensibilità, della nevrosi di cui soffrii durante l’infanzia, fu proprio la signora Hajdù, che temevo come i popoli primitivi temono il demonio. Del resto i domestici mi trasmisero molte delle loro ubbie e delle loro paure superstiziose. Quanto alla signora Hajdù, continuò a imperversare per la casa, finché un bel giorno, fortunatamente, “l’acquavite s’incendiò dentro di lei”, liberandoci così della sua presenza, ma dovettero trascorrere diversi anni prima che la natura si decidesse a ricorrere a questa graditissima soluzione. Nessuno considerò mai il fatto che la signora Hajdù era semplicemente malata, che soffriva di delirium tremens, e che dunque sarebbe stato auspicabile il suo ricovero in un cronicario. Ma non si usava mandare i domestici al cronicario, considerato probabilmente una dimora troppo lussuosa per loro.”

Il punto di svolta

La linea di demarcazione che divide la prima parte del libro dalla seconda è netta, traumatica, improvvisa come il colpo di pistola che Gavrilo Princip destinò all’erede al trono dell’impero austro ungarico. Un colpo che uccise Francesco Ferdinando, che scatenò la guerra e che pose fine per sempre all’epoca gloriosa e alle fortune dell’Ungheria. Impossibile non notare il salto temporale nella narrazione, impossibile non accorgersi di come Marai cerchi di omettere il periodo bellico nelle sue memorie. È una censura tutta psicologica perché quella pistolettata lo segna nel profondo, e per tutta la vita, fino a indurlo a rivolgere la canna della pistola contro la propria testa.

La seconda parte ci presenta un protagonista oramai adulto, impegnato a peregrinare per il continente europeo. La sua seconda patria è la Germania, che lo accoglie in maniera benevola. Vi conduce la tipica esistenza dello studente squattrinato, ha diverse avventure amorose e conosce il rigore del carattere teutonico, senza tuttavia patirne troppo. Ai tedeschi perdona molti dei loro difetti, è indulgente con le loro contraddizioni e le loro responsabilità. La stessa cosa non si può dire dei francesi. Loro non fanno una bella figura fra le pagine di Marai. Pur riconoscendo alla Francia il merito di aver “illuminato” la cultura occidentale, descrive i suoi abitanti come tirchi, avidi, xenofobi, intolleranti, sprezzanti e soprattutto codardi, nella misura in cui si lasciano traviare dalle lusinghe dell’imborghesimento progressivo. In Francia si trasfersce con la giovane moglie Lola, sposata troppo presto, per pura testardaggine, per ostinazione, per vezzo anarcoide, per cupio dissolvi. Con lei sperimenta la miseria, a Parigi, e persevera nel tenere insieme un matrimonio traballante, forse insensato. Nemmeno lei riusce a mitigare i turbamenti del suo animo inquieto.

Vorrei scrivere qui la verità. Sono un nevrotico, un pavido e un debole; cerco di assuefarmi alla verità un poco alla volta, come un malato grave costretto ad assumere una medicina amara e pericolosa che potrebbe anche costargli la vita; può darsi che quella medicina mi uccida, ma può anche darsi che mi aiuti. In fin dei conti non ho nulla da perdere. La verità è che non posso incolpare nessuno né della mia struttura psichica né dell’evoluzione del mio destino.
Esperienze dolorose hanno accelerato il processo di rivolta, che iniziò quando avevo quattordici anni e prosegue tuttora, con periodiche ricadute; so che sarà così finché vivrò. Non appartengo a niente e a nessuno. Non esiste un solo essere umano – amico, donna o parente che sia – di cui io riesca a tollerare la compagnia oltre un certo limite di tempo; non esiste comunità umana, corporazione o classe sociale in cui possa trovare il mio posto; per mentalità, modo di vivere e condotta spirituale sono un borghese, e tuttavia mi sento a casa in qualsiasi ambiente tranne che quello borghese: vivo in un’anarchia che sento come amorale, e faccio fatica a sopportare questa condizione.”

Conclusione

Non resta dunque che perdersi fra le sue confessioni per scoprire in che modo un uomo tanto tormentato trova la “serenità” necessaria per dedicarsi alla scrittura, come risolve la questione del suo matrimonio e come pone fine al suo nomadismo. Ne vale la pena perché fra le sue parole si riscontrano molte tematiche tuttora irrisolte e tremendamente attuali nella società occidentale.

 

Orazio C.