Alfonsina Storni – una vita
“Il tempo ci fa cadere sopra badilate di terra, e va bene così.”
Una simile enunciazione non può che scaturire da un cuore che ospita la saggezza. Un cuore che ha raggiunto la più insigne forma di rassegnazione. Non quella rassegnazione che è figlia del lassismo, o della codardia, ma l’acquiescenza che nasce dalla consapevolezza di essere impotenti di fronte alla vita. Si vive in pace solo quando ci si rende conto di essere niente al cospetto del tutto, solo quando si diventa consci della piccolezza umana e dell’estrema volatilità del proprio essere.
La storia di Alfonsina Storni
Questo cuore, questo cuore nobile e sapiente, smette di battere il 25 Ottobre del 1938. È lui stesso a decidere di fermarsi, a scegliere di non cadenzare più la vita della sua coraggiosa proprietaria.
Il cuore di Alfonsina Storni si ferma quando decide che il sacrificio non vale la ricompensa. Cessa ogni attività quando la vita non è più tale, o non è più “dignitosa” per una donna di pensiero, per una donna ribelle e tanto padrona di se stessa da poter essere considerata una paladina dell’autodeterminazione.
Per tutti i quarantasei anni della sua esistenza, Alfonsina Storni ha sempre fatto ciò che più le aggrada, senza curarsi delle convenzioni sociali, del moralismo imperversante, del giudizio altrui. Non è cosa da poco, per una donna nata nel 1892 e vissuta principalmente in un paese poco evoluto, dal punto di vista sociale, come l’Argentina.
Migrante in tenera età, lascia assieme alla famiglia il Canton Ticino e si immerge nel contesto metropolitano di Buenos Aires. Abbandona anche l’armonica placidità della lingua italiana e intona la petulante nervosità dello spagnolo. E così, saranno ispaniche le sue declamazioni socialiste, le sue infervorate invettive contro le ingiustizie sociali, le sue proteste civili, i suoi articoli aizzanti, infiammanti, insolenti… Saranno ispaniche anche le sue delicatissime liriche, nelle quali emerge una nostalgia arcadica della natura; un candore commovente, corporeo e animico al contempo; una profondità ontologica seducente, e spiazzante, e zittente. Si resta muti nel sentire la “voce” della sua poesia carezzevole ma vorticosa, palese ma ancestrale, semplice ma ricercata.
“Sì, io mi muovo, vivo, mi sbaglio;
Acqua che corre e si mescola, sento
La vertigine feroce del movimento:
Fiuto le selve, terra nuova tocco.Sì, io mi muovo, vado cercando forse
Soli, aurore, tempesta ed oblio:
Cosa fai tu costì miserrimo e pulito?
Tu sei la pietra al cui fianco io passo.”[E tu?, poesia di Alfonsina Storni]
Sin da giovanissima, è costretta a lavorare come cameriera e come lavapiatti per via delle ristrettezze economiche della famiglia. Dopo la prematura scomparsa del padre Alfonso, deve adattarsi alla dura vita dell’operaia: viene assunta come fabbricante di berretti a cottimo. Tuttavia, non rinuncia a studiare. La sua erudizione la salva dall’abbrutimento del duro lavoro in fabbrica e le consente di iniziare a lavorare come “maestra rurale”, dedicandosi all’alfabetizzazione dei più piccoli. Ha un fervore altruistico che la porta a impegnarsi alacremente. Intuisce che l’unica via per l’emancipazione sociale è quella della cultura e si spende per diffonderla proprio fra le classi sociali più sfortunate. L’aver conosciuto la miseria, lo sfruttamento, la durezza di un lavoro privo delle moderne tutele sindacali, la rende un’appassionata sacerdotessa delle dottrine socialiste. Combatte, a suon di parole venefiche, nello scenario metropolitano della capitale argentina per l’ottenimento della sacrosanta giustizia sociale.
Nel frattempo, consegue il diploma e recita con diverse compagnie teatrali. Il palcoscenico è la sua seconda passione, dopo la letteratura, e la porterà a intraprendere anche la carriera di drammaturga. Collabora con alcune riviste letterarie e pubblica le sue prime poesie. Nel 1912, appena diciannovenne, dà alla luce un figlio, trovandosi nella difficile condizione di ragazza-madre in ristrettezze economiche. Mai rivelerà ad alcuno il nome del padre del suo Alejandro Alfonso; e mai avrà una relazione ufficiale con altri uomini.
Sfida lo scandalo, il biasimo, i pregiudizi e gli stereotipi del tempo. Diventa sfrontata, impertinente, moralmente anarchica. È uno dei primi esempi di self made woman: può contare solo su sé stessa, non riceve né aiuto né manforte da nessuno. Ma non se ne fa un cruccio e tira dritto.
“Io sono come la lupa. Me ne vado sola e rido
del branco. Mi guadagno il cibo ed è mio
dovunque sia, poiché ho una mano
che sa lavorare e cervello sano.”
[con questi versi Alfonsina Storni descriveva se stessa]
Nel 1923 ottiene la cattedra di insegnante di letteratura a Buenos Aires e partecipa all’organizzazione di biblioteche popolari socialiste. Non abbandonerà mai la sua missione della diffusione culturale. Inizia la sua carriera di giornalista usando lo pseudonimo di Tao Lao. La sua penna è graffiante, mordace, caustica. La vita metropolitana la porta a scoprire e denunciare ingiustizie, disparità sociali, soprusi, ma anche ad analisi sociologiche di carattere polemico. Ridicolizza l’ambiente borghese e ne mette in luce le contraddizioni e gli egoismi.
“Trovate la signora voluminosa sul sedile di una metropolitana. Ce l’avete davanti, a portata di bisturi. La signora voluminosa non è sola. Seduto accanto a lei c’è un uomo, il marito. Rasenta i quarantacinque, la signora, e l’età la discolpa dagli sguardi intemperanti e acuminati, verso di te che ne hai venti, non sei adiposa e hai buon umore e allegria da vendere. Allora immagini una storia.”
Piano piano arriva anche la sua affermazione artistica e l’apprezzamento da parte dei colleghi e del mondo letterario. La Storni ha una caratterizzazione stilistica marcata e ben riconoscibile. Si inserisce nel filone del postmodernismo, ovvero in quella corrente artistica che si affida allo scetticismo, al rifiuto di qualsivoglia dogma, alla contestazione di ogni verità imposta, alla derisione di tutte le certezze illuministiche. Un habitat più che naturale per un carattere come il suo, per una guerriera indomabile a cui il destino ha dato il nome di “Alfonsina” (dall’antico nome proprio tedesco “Hildefuns”, ovvero “pronto a dare battaglia”).
Dopo la pubblicazione della sua quinta raccolta di poesie, ha ormai raggiunto la fama. È stimata, apprezzata, elogiata. La sua figura diventa iconica e lo sarà ancora più dopo la sua morte. Diventerà per l’Argentina ciò che Frida Khalo è stata per il Messico: un punto di riferimento, un’eroina, un mito. Finché non giungerà la miseria dei nostri tempi, la pochezza abissale che contraddistingue il mondo contemporaneo. Allora ci sarà l’oblio anche per lei. Oggi è una sconosciuta relegata ai margini della storia e rievocata solo dall’estremismo femminista, che punta più sugli aspetti rivoluzionari della sua breve esistenza che non sui suoi innegabili meriti artistici.
“Perché io ho il petto bianco, docile,
inoffensivo, dev’essere che le tante frecce
che vanno nell’aria vagando
prendono la sua direzione e lì si piantano.Tu, la mano perversa che mi ferisce,
se questo è il tuo piacere, poco ti basta;
il mio petto è bianco, è docile ed è umile:
fuoriesce un po’ di sangue… dopo, nulla.”
[Petto bianco, di Alfonsina Storni]
Alfonsina Storni – una vita
Adesso che l’abbiamo descritta e abbiamo imparato a conoscerla meglio, possiamo spiegare perché, a un certo punto, un punto troppo precoce, Alfonsina non ci fu più. Riveliamo che era dotata di un animo inquieto, molto più sensibile di ciò che la sua indole battagliera lasciasse immaginare. Quando sentì addosso a sé gli occhi del grande pubblico, le attenzioni della stampa, le invidie e le gelosie dei colleghi, ebbe una crisi. Il panico la assalì e la travolse. Ne scaturì una nevrosi, che lei decise di curare alla maniera più naturale: scappando. Lasciò l’insegnamento e si affidò agli effetti benefici del viaggio. Tornò in Europa e si concentrò sul proprio sviluppo artistico. Conobbe Marinetti, Borges, Pirandello e Garcia Lorca. Raggiunse una maturità e una consapevolezza tali da renderla invulnerabile alle insidie emotive che erano insite alla sua natura.
Ma la vita le presentò anzitempo un conto salatissimo: nel 1935 le venne diagnosticato un tumore al seno. Alfonsina Storni si sottopose a un intervento chirurgico, tuttavia il male presentò presto una preoccupante recrudescenza.
Il tema della morte, già presente nel suo repertorio lirico, divenne cruciale. È emblematica la poesia “Voy a dormir” (vado a dormire), nella quale si preannuncia la fine con un senso di ineluttabilità e di serenità stordente. È la sopraggiunta consapevolezza di chi ha capito che non ha senso opporsi all’eterno.
“Denti di fiori, cuffia di rugiada,
mani di erba, tu, dolce balia,
tienimi pronte le lenzuola terrose
e la coperta di muschio cardato.
Vado a dormire, mia nutrice, mettimi giù.
Mettimi una luce al capo del letto
una costellazione; quella che ti piace;
tutte van bene; abbassala un pochino.
Lasciami sola: ascolta erompere i germogli…
un piede celeste ti culla dall’alto
e un passero ti traccia un percorsoperché dimentichi… Grazie. Ah, un incarico:
se lui chiama di nuovo per telefono
digli che non insista, che sono uscita…”[Vado a dormire, Alfonsina Storni]
Ma da Alfonsina Storni non ci si poteva accontentare di un’accettazione remissiva. Anche in punto di morte emergeva la ribellione connaturata al suo essere. Ecco dunque la decisione del suicidio, l’intervento umano che anticipa la sorte e la previene. La massima forma di estrinsecazione dell’autodeterminazione umana. Qualcuno, povero di spirito, potrebbe dire che il suicidio è sinonimo di codardia. Nel caso di Alfonsina Storni, si sbaglierebbe di grosso. Si tratta, invece, di coraggio. Il coraggio di prendere una decisione e portarla a compimento, il coraggio di andare anzitempo incontro all’ignoto, il coraggio di rinunciare per sempre a quella flebile e residuale fiammella di speranza che sempre arde, reconditamente, finché c’è vita. Ma il suicidio è anche l’espressione ultima del suo consueto moto endogeno di ribellione. Quello che l’ha sempre colta di fronte alle ingiustizie. Non è forse un’ingiustizia cosmica imporre al malato non curabile il supplizio finale? Alfonsina Storni lo rifiuta, lo rinnega e lo azzera. Lo annienta con un tuffo in mare. Si affida per sempre all’oceano, al largo di Mar del Plata, e ci lascia oggi – noi, suoi posteri meschini – a discutere se abbia fatto bene o male, se sia stata forte o debole, encomiabile o biasimevole…
Orazio C.