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Gian Maria Sulas

Gian Maria Sulas

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10 DOMANDE PER UN AUTORE

  1. Cosa ci puoi dire di te e cosa no?
  2. Cosa scrivi e perché?
  3. Cosa manca nell’attuale panorama letterario e cosa c’è di troppo?
  4. Come convinceresti il lettore a leggere di più? Quando si è letto abbastanza?
  5. Vivi di scrittura? O per la scrittura?
  6. Qual è il tuo ultimo progetto?
  7. Qual è il tuo prossimo progetto?
  8. Quali sono i pro e i contro della scrittura?
  9. Dove andresti e cosa porteresti con te?
  10. Perché resti?

 

 

1.

Manca davvero poco perché io festeggi mezzo secolo, e devo dire che certe volte mi sento come Forrest Gump, quando racconta di essere stato molte cose durante la sua vita: “un giocatore di football, un soldato, una celebrità e un capitano di barche per gamberi

Sia a livello umano, sia professionale, ho vissuto molteplici esperienze, molte delle quali non ripeterei e tante altre che hanno virtuosamente spigolato le mille sfaccettature che, come persona, mi definiscono.

Mi piacerebbe condividere le mie scelte, aiutare chi dovesse trovarsi a prendere decisioni simili a farlo con maggiore consapevolezza sui punti di forza e di debolezza delle opzioni disponibili.

La vita è una grande, enorme matrice matematica, dove le variabili sono infinite e incontrollabili, ma noi possiamo governare le nostre scelte, agire con maggiore o minore consapevolezza, magari anche sbagliare sapendo di farlo, ma capitalizzando la felicità di quel momento in cui abbiamo detto sì, o no, lanciandoci nel vuoto o voltandoci dall’altra parte.

Di tutte queste scelte, vi potrei dire; non vi racconterei mai, invece, perché ho paura del buio.

 

2.

Cosa scrivo e perché lo dice Eleonora, parlando della sua arte, la fotografia: “Io rubo qualcosa che c’è, così com’è, esattamente così com’è, e che però la gente non vede: banalmente perché non è lì nel momento in cui quel qualcosa accade, oppure perché non ha il giusto punto di vista, o perché non riesce a cogliere il dettaglio, o il quadro generale. Questo faccio, prendo e rendo. Non uso filtri, non post produco, non ho nemmeno questa grande tecnica. Se mi fai domande su tutta una serie di parametri tecnici magari non so cosa dirti, sono a un livello poco più che sufficiente, certo non magistrale. L’unica cosa che faccio è tagliare. Io taglio la fotografia perché lo spettatore si concentri sul fatto, sia esso un dettaglio specifico o la totalità dell’immagine, ma quel fatto lì, che io voglio lui veda. Il mio obiettivo è solo che lo veda, deciderà lui poi cosa ci vede.

Io questo faccio, prendo la realtà e la racconto, cercando di portare il lettore sui dettagli, quelli che mi interessa lui veda, quelli che secondo me danno sapore a quella storia, spessore a quell’attimo.

Ci sono passaggi del romanzo, persone, citate senza una spiegazione circostanziata (Alfredo, chi sarà mai?…) ma non importa: importa il peso emotivo che quella persona ha, spiegato in due parole, quelle due parole che dicono a chi legge “Ce l’hai tu, nella tua vita, un Alfredo che guardava te e la tua migliore amica con gli occhi di un amore così assoluto che solo un padre può provare?”

Un neorealismo letterario tutto mio: la meraviglia delle vite normali piene di cose uniche e speciali.

 

3.

Mi sono sempre chiesto cosa definisca un’opera d’arte come tale e devo dire che, né la quotazione economica, né l’apprezzamento massivo mi hanno davvero convinto di essere un metodo comprovato per definire una certa realizzazione come arte.

Sì, “la Frigerio” ci spiega che senza il successo di pubblico un artista non può definirsi tale, e su questo non c’è dubbio, ma: come ci si arriva al grande pubblico?

Quali sono le logiche di selezione, i permessi d’accesso per entrare in questo mondo?

Sentii tanti anni fa Vittorio Sgarbi dare la sua definizione di arte: disse che secondo lui arte c’è quando puoi rivedere (o rileggere, direi io) un’opera, senza trovarla noiosa, riscoprendo in essa sempre qualcosa di diverso e stimolante.

Questo sicuramente differenzia un quadro di Warhol da un manifesto pubblicitario del supermercato, e, per contro, attribuisce al manifesto rango d’opera, quando esso è talmente creativo da superare lo scopo primario per cui è stato creato, come raccontare un prodotto o informare su un servizio.

Tranne rari casi, io trovo piuttosto noiosi e banali molti libri pubblicati e osannati.

Parlano alla pancia delle persone, danno loro quello che vogliono e non c’è dubbio che questo sia un metodo ottimale per accelerare una distribuzione massiva del “prodotto libro”. Ma è arte? O si tratta di un prodotto a scaffale?

Troppi prodotti, standardizzati, perfettamente costruiti per colpire un certo target e alimentare il business (e da uomo di marketing, lo capisco), ma il mercato ha già dimostrato che si può avere grande successo di massa anche con lavori meno immediati.

 

4.

La domanda è all’autore o all’esperto di marketing?…

Nel mio lavoro mi hanno fatto mille volte questa domanda, con riferimento a un’automobile, una carta di credito, un contratto telefonico, uno smartphone: “come facciamo a venderne di più?

Ma, di nuovo, il libro è un prodotto, o è una (magari piccola) opera d’arte?

Va di certo venduto, ma toccando quali corde?

Aumentare le modalità in cui tale opera può essere fruita (ebook, audiolibri) o distribuita (vendita al supermercato) convince il lettore a leggere di più? O offre allo stesso target diversi canali di acquisto e modalità di fruizione del prodotto?

Scriviamo storie che vale la pena leggere e sono convinto che ci saranno tanti lettori in più.

 

Nessuna delle due, ma uso la scrittura per salvarmi la vita.

 

  1. 7.

L’ultimo progetto non ha nulla a che vedere con la scrittura. Ho capitalizzato vent’anni di lavoro, competenze, networking, professionalità, per costituire una startup che ha ideato e gestisce un’app in grado di rilevare un incidente stradale e informare una centrale operativa, attiva 24/7. È il mio nuovo lavoro, un’azienda fondata con vari soci e diretta da me che mi terrà impegnato un bel po’, ci auguriamo con soddisfazione.

Il prossimo progetto è la trilogia che ho in mente, un thriller stavolta. Ho già tutto in testa e… il titolo è già scritto nero su bianco tra le pagine dell’Elefante di carta. Non posso dirvi dove, però.

 

8.

La scrittura ti porta a scoprirti.

È come aprire una backdoor, una “porta di accesso secondaria seminascosta” che affaccia sul tuo intimo.

Anche quando l’autore non è estremamente autobiografico e non traspone nel testo il suo vissuto in maniera troppo diretta, c’è sempre uno spiraglio da cui esce un po’ di sé e, allo stesso tempo, da cui chi legge può guardare dentro.

Osservare, spiare, capire.

Alle volte qualcuno capisce cose che non avevi nemmeno idea di aver così chiaramente raccontato, eppure per quel qualcuno sono evidenti, lampanti, inequivocabili.

Ci sarebbe da capire se tutto ciò possa essere interpretato come un “pro” o come un “contro”.

 

9.

Ad Aspen, in Colorado, a fare snowboard.

A Spa Francorchamp, in Belgio, a guidare su quel circuito un’auto da corsa.

A Buenos Aires, a comprare quadri.

A vedere una mostra di Mario Sironi.

Sempre con il passaporto in tasca, per tornare a casa.

 

10.

Perché più allargo il raggio del compasso che definisce l’area in cui mi sposto, più ho bisogno di ficcare bene in terra la sua punta d’acciaio.

Titoli dell'autore

L'elefante di carta – copertina

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